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Gaetano Basile, nato a Palermo il 16 novembre 1937, giornalista free lance con collaborazioni con Il Mattino, La Sicilia, Oggi Sicilia, Eques, Tutto Equitazione, Cavallo Magazine; cura delle rubriche fisse sul Giornale di Sicilia (Viva Palermo), su Kagome di Tokyo (Rivista di cucina italiana) e ACCI di Tokyo (Giornale dell’Ass. Cuochi Cucina Italiana). Direttore di “Il Pitré” (Quaderni del Museo Etnografico Pitré Palermo) e di “Babbalà” (Testata giornalistica televisiva regionale). Ha anche collaborato con testate televisive come France 3, Yleisradio Finnish Broad. Co., France Inter, ZDF, Nippon TV, RAI e MEDIASET. Autore di testi teatrali e di pubblicazioni. Fra i riconoscimenti: Targa d’argento UPT (1993), Premio Città di Monreale (1996), Premio Sicilia ’97 dell’Ordine dei Giornalisti Siciliani, Premio Telamone di Agrigento (2000), Premio Trinacria d’argento (2001), Accademico Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina (2004), Nomina a componente Commissione Toponomastica Cittadina (2009). Premio dall’Associazione della Stampa Estera in Italia del Gruppo del gusto per la divulgazione (2011).

 

Dal 2006 è Socio Onorario dell'Associazione Spaghettitaliani.

 

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Palermo e i suoi Palazzi: L'origine della Gastronomia palermitana

Articolo inserito il 10/03/2005 alle ore 15.40.05

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Intervistare Gaetano Basile è sempre un piacere, si starebbe ore e ore ad ascoltarlo, oltretutto ringraziando le innumerevoli ricerche da lui eseguite sugli usi e costumi, sulla cucina tradizionale e sulla storia di Palermo c'è sempre da imparare. Quando ho iniziato a riportare questa intervista, mi sono trovato davanti ad un bivio, o cercare di sintetizzare l'intervista o di dividerla in modo da non presentare una pagina troppo piena di testo che avrebbe "spaventato" il visitatore. Mi è sembrato più giusto scegliere questa seconda strada ed ho quindi diviso l'intervista in tre parti.

Parliamo adesso dell'origine della gastronomia palermitana e da dove nascono tutti quei piatti che l'hanno resa così famosa.

A Palermo ci sono tre cucine: la prima è la cucina dei monsù (ndr: i cuochi dei baroni), che è la cucina barocca, la cucina aristocratica, che è un po' quella che oggi si chiama cucina internazionale, fare dei buoni piatti servendosi di cernie, lepri, conigli, quaglie, pesce pregiato è facile, per sbagliare una ricetta si deve essere proprio imbecilli, la seconda è la cucina popolare o di reinvenzione spiritosa, come è stata chiamata, e

poi alla fine c'è la terza cucina, quella di strada, chiamata dei "buffettieri" , che deriva o dal francese bouffet o dallo spagnolo bufeta, che è il tavolo, quindi roba che si vendeva per strada su un tavolo, questa cucina, cioè quella delle stigghiole, della quarume, del musso, è quella più antica della Sicilia, è veramente quella che ha i quattro quarti di nobiltà, perchè era quella che si faceva nelle città greche di Sicilia, nell'agorà c'era un angolo dedicato alla cucina pronta, era un angolo coperto, dove si vendevano verdure bollite, interiora bollite, interiora arrostite sulla brace, pesce fritto, che si poteva o mangiare sul posto oppure portare a casa, quindi 2.500 anni fa inventammo il fast-food e il take-away. Curiosamente forse per una certa forma di ignoranza c'è un accanimento comunale contro la cucina di strada, ogni occasione è buona per cercare di distruggerla, e la mucca pazza, l'igiene, le norme HACCP, c'è gente che non può sopportarla, se potesse vederla distrutta, sparita, sarebbe felice. Questa mi sembra soltanto una posizione da talebani, solo Sirchia può inventarsi una cosa del genere. Non si può distruggere una cucina che ha 2.500 anni di dignità, solo perchè c'è un problema di igiene. Una volta ad un congresso a cui erano presenti gli assessori responsabili, dissi: "Scusate, avete ragione, pensiamo a quante epidemie da quarume, quanti morti da pane ca meusa, e i defunti da stigghiola dove li mettiamo? Ma non facciamo ridere, signori miei! Non è morto mai nessuno. Ma che fa scherziamo". Poi questi sono sporchi? Ognuno ha il suo "provider" personale, io non andrei mai da uno che è sporco, è una selezione naturale, quello sporco dura poco, quello pulito dura di più. Ecco dov'è il concetto! non c'è bisogno di invocare le leggi, basta invocare la "naturalezza" di questo tipo di mercato. Ed è una cosa che andrebbe salvata a tutti i costi, perchè rimane pochissimo, già attaccata da cose tipo il carrello con l'hot dog. Ma facciamo ridere, l'hot dog nella patria del fast-food. Basta dire che abbiamo McDonald, cioè andiamo a mangiare il panino con la polpetta quando abbiamo il più economico panino con le panelle, che è pure più buono e più sano. Cerchiamo di essere più onesti con noi stessi per riappropiarci delle nostre realtà civili. Noi abbiamo vissuto un mondo civile, abbiamo ancora i rimasugli, usiamoli.

Parliamo adesso della cucina più interessante, che è quella popolare, cittadina o di reinvenzione spiritosa. Perchè si parla di cittadina? Perchè, dicono gli esperti, che non si può parlare di cucina contadina, perchè da noi non ci fu una cucina contadina, ci fu un nutrirsi contadino. Cioè questi mangiavano tutto quello che trovavano e buonanotte, che cercavano di combinare nel modo più incredibile, ma questa non è cucina, è nutrimento, è alimentarsi. La cucina cittadina di reinvenzione spiritosa non è altro che la reinvenzione dei piatti dei nobili. Per esempio i nobili si potevano permettere di andare a caccia di beccafichi, che sono uccelletti simili alla capinera, che hanno il piumaggio colore argento, il codino a V nero, pesano si e no 30 g, ne buttavano giù a migliaia a fucilate, si portavano in casa, i monsù lo spennavano, li disossavano, mettevano da parte le viscere e interiora e li farcivano con queste, lasciavano il codino e si presentavano in bellavista per poterle prendere con il codino e farne un solo boccone. La cucina da noi è stato da sempre un grande sistema di comunicazione, e la comunicazione avveniva attraverso i servi di casa, per cui la cameriera arrivava a casa al piano di sotto e la mamma gli chiedeva: "Chi manciau u signor baruni?" e la cameriera: "Manciau i beccaficu!", spiegando cos'erano. Al che la madre per copiare i nobili prese le sarde fituse, costavano di meno, li avvolse, lascio il codino a V, e invece di condirle di interiora, li condì con mollica di pane, un poco di odore di arancia o di limone, per cercare di confondere il puzzo del pesce puzzolente, e prudentemente ci mise i pinoli. In tutta la cucina popolare il pinolo è presente perchè rappresenta nella medicina popolare l'unico deterrente contro l'intossicazione alimentare, praticamente è una bivitasi preventiva. E quindi nasce la sarda a beccafico. La stessa sarda viene elevata al rango di lenguado, i nobili mangiavano lenguado, da noi si parlò spagnolo fino al 1741. Il lenguado in spagnolo è la sogliola, per cui anche li per copiare le sogliole si prese una sarda, aperta, deliscata, ed ecco le sarde al lenguado, allinguata, la fregatura era che non ci si potevano mettere i pinoli, allora bagnetto d'aceto, ed avevano risolto il problema. Sempre in questa cucina di rappresentazione, i nobili mangiavano le quaglie, allora si prese una melanzana tutta intera con il gambo, che rappresentava un collo senza testa, due tagli a fare le ali, quattro botte sul di dietro, per fare il culo piumato della quaglia, fritta e servita su un piatto sembrava una quaglia, la quaglia di melanzane. Con le stesse melanzane un'altro piatto importante forse fondamentale della nostra cucina, la parmiciana, con la "c" e non con la "g", che altro non è che una persiana, quella con le scalette, allora le fette di melanzane fritte venivano disposte a scaletta, volendo rappresentare proprio una persiana, si condiva con una spolverata di caciocavallo fresco, che simulava il polverone della strada, a cui più tardi si aggiunse un pochino di salsa di pomodoro, ma questo avvenne alla fine dell''800. Addirittura se vogliamo fare la ricerca etimologica, che viene dalle piccole cose, c'era una bellissima taverna in corso dei Mille, gestita da una signora, a dir poco giunonica, matrimoniale a due piazze, immensa, enorme, e il suo giovane garzone di bottega, aveva una settantina d'anni, era alto un metro e cinquanta, tanto è vero che d'inciuria (ndr: soprannome) faceva "naticchio", che in siciliano non è altro che il nottolino di rame con cui si chiude la persiana, la signora quando arrivava in sala la teglia con la parmiciana, perchè si serve sempre nella teglia rettangolare, diceva: "Arriva la parmiciana cu naticchio". Assieme a questa ci sono anche le incomprensioni della lingua degli altri, per esempio un'altro piatto importante, come saprai da noi non si mangiò mai carne vaccina, perchè i buoi servivano per lavorare, le vacche per fare il latte, per fare i vitelli, allora si abbattevano solo "bovi da guasto", cioè animali o malati o sciancati (ndr: zoppi), oppure vecchi, quindi la carne era dura, fibrosa, immangiabile. I monsù quando arrivarono cercarono di vedre come fare per fare con quella carne un piatto almeno mangiabile, e allora inventarono un piatto di viand farcie de maigre, cioè carne farcita di magro, dentro c'erano erbette odorini, ..., allora non conoscendo il francese lo copiarono chiamandolo il falsomagro, cioè esattamente il contrario, perchè la riempirono di salame, uova sode, prosciutto, una cosa vergognosa, esattamente all'opposto. Oppure il biancomangiare, che ha una origine bellissima, ci viene da una ricetta del '200 francese, che era il blant manger, che non era un piatto, che era una serie di piatti blant, cioè "blandi", una serie di piatti per convalescenti, puerpere, deboli di stomaco, dove c'erano il riso in bianco, il petto di piccione o di pollo fatto a brodetto, ..., poi la parola blant scomparve per l'assonanza con blanc, ma quando arrivò qui non lo sapevamo e pensammo che si trattava di biancomangiare, solo che pensammo che fosse un dolce e inventammo un dolce che si chiama ancora oggi biancomangiare, che è proprio al contrario di "blando", visto che di una pesantezza terrificante, perchè è un dolce da 14.000 calorie a boccone, e che per digerirlo ci vogliono 48 ore.

Poi ci sono i piatti per ingannare il prossimo, come quello inventato da un'argentiera. Gli argentieri erano considerati ricchissimi, perchè lavoravano oro e argento, in realtà erano poverissimi perchè era il committente a fornire la materia prima, poi si doveva consegnare il lavoro finito, più i ritagli e le limature. Il tizio veniva pagato solo per l'opera. Però all'occhio di tutto il vicinato erano ricchi. L'unica cosa che li distingueva dal popolo minuto era che questi avevano sempre il luce addrumato (ndr: il fuoco acceso), perchè il fuoco serviva per lavorare, mentre gli altri non se lo potevano permettere. Pensa che fino agli anni '50 nelle informazioni prematrimoniali per definire il ceto, la solidità economica di una famiglia, si diceva per esempio, "cuoce una volta al giorno", o "cuoce una volta alla settimana", perchè oltre alle spese del cibo c'erano pure quelle della legna e del carbone, che non erano indifferenti, quindi basta pensare a questo artigiano che aveva sempre il fuoco acceso, e allora la moglie di uno di questi argentieri per fare schiattare (ndr: morire) di invidia le vicine inventò un piatto che si fa a bagnomaria, si mette una fetta di caciocavallo fresco, un filo parsimonioso d'olio, un pochino di aglio, origano e due gocce d'aceto, ora che cosa succede, che l'odore che sprigiona è identico a quello del coniglio alla cacciatora, per cui tutte le vicine, pensavano che l'argentiera cucinasse coniglio, invece era solo formaggio, da qui nacque il cacio all'argentiera. Ci sono cinquantamila casi di queste invenzioni spiritose, di questa comunicazione fra la cucina dei nobili e quella dei poveracci.

Adesso vorrei parlarti di un piatto tipicamente palermitano, il cui successo dura da più di 1.000 anni, il panino con la milza, che è pure un test di palermitaneità, che è un piatto molto curioso. Innanzitutto bisogna precisare una cosa, che la gente non sa, quando si parla di cucina siciliana tutti pensano che i nostri piatti siano in buona parte di derivazione araba, invece non è vero per niente, diciamo che il 60% e anche di più della nostra cucina è di derivazione "cacher", cioè cucina ebraica, non lo sa nessuno. Uno dei piatti più importanti creato dagli ebrei palermitani fu proprio il pane con la milza. Per chi ha frequentato una casa ebraica sa che in cucina ci sono due stipi, in uno ci sono i piatti e le stoviglie per la carne o il pesce, in un'altro invece per i derivati, cioè per il latte, per i formaggi, per l'uovo di pesce, ... debbono essere sempre separati, perchè secondo le norme del cacherut, da dove deriva il cacher, non si devono mettere mai insieme la madre e il suo prodotto, quindi mai mettere il latte insieme alla carne. Nei macelli cacher, che a Palermo si trovava dove adesso c'è l'odierno teatro Santa Cecilia, gli uccisori non potevano essere pagati, perchè non si può pagare un prezio sanguinis, anche se di animale si trattava, allora gli uccisori venivano ricompensati con le interiora degli animali abbattuti, ad esclusione del fegato, che era caro, e quindi si vendeva a parte. Questi poveracci la sera tornavano a casa con dei secchi pieni di budella, polmoni, milza, cuore, ..., e dovevano sforzarsi di trasformare in danaro, e allora osservarono i cristiani, che erano la maggioranza, gli ebrei usavano l'olio d'oliva, i cristiani lo strutto, e abitualmente mangiano le interiora aggiungendoci anche altri ingredienti tipo formaggi, ricotta, ..., allora inventarono un "panino per cristiani", misero insieme la milza, lo scannorozzato, cioè tutte le cartilagini della gola del bue, il polmone bollito, che si taglia a fette, si lascia soffriggere nello strutto bollente, e si mette in mezzo ad un panino in compagnia di ricotta e formaggio. Questa ricetta, che rimonta alla comunità ebraica di Palermo, quindi siamo alla fine dell''800, cioè 1.100 anni fa ha avuto un successo, che dura fino ai nostri giorni. Voglio chiarire anche i due tipi di "focaccia" che si facevano, cioè schetta o maritata, su cui c'è una grande confusione, schetta era l'edizione economica, tutta bianca, di ricotta e formaggio, quindi virginea, quando aveva la carne in mezzo, come dicevano i nostri nonni che erano molto vastasi, "vuol dire che è maritata". Questo è uno dei più grandi successi di quella cucina arcaica. Ti voglio pure ricordare che da questa cucina cacher vengono i tarales, che sono i taralli, vengono la cubaita, quel dolce fatto con lo zucchero fuso e dentro c'è la giugiulena, le mandorle, le noci, le nocciole, vengono il torrone, le zuppe di ceci, fagioli e lentichhe, le forme del nostro pane, il torcigliato erano forme di pane degli ebrei, e poi la cosa più importante, ed è una cosa veramente da sottolineare, la tovaglia ricamata, quella del corredo delle nostre madri, delle nostre nonne, viene proprio dalla tradizione ebraica, perchè gli ebrei furono i primi ad usare la tovaglia ricamata con le pezze da bocca, cioè con i tovaglioli, un esempio brillantissimo è il mosaico del duomo di Monreale, dove lavorarono maestranze che venivano da tutto il bacino del mediterraneo. Ricordando che la cattedrale di Monreale è della fine del 1100. Nella corte fastosa di Federico II, già alla metà del 1200, gli ospiti si sedevano a terra su dei cuscini, davanti ad un piccolo banco, che si chiamò banchetto, uno da un lato e uno dall'altro, un piatto al centro, ed ognuno si serviva con un coltello a punta, che faceva da coltello e da forchetta, si mangiava spesso con le mani e non esisteva la tovaglia, ed eravamo alla corte fastosa di Federico II, mentre gli ebrei mangiavano sull'arcamesa, cioè su una tavola apparecchiata con la tovaglia ricamata. Quando si dovette rappresentare Cristo a tavola con gli apostoli, o le nozze di Canne, o altre scene di pranzi, chiesero i mosaicisti: "Questi sono ebrei? Allora a tavola con la tovaglia!", difatti si vede Gesù a tavola con la tovaglia ricamata. Questo è un segno di una grande civiltà. Buona parte della cucina palermitana è cacher, e il piatto più importante, anzi la salsa più nota della cucina cacher è una cosa incredibile, una salsa che più miserabile, più ebraica non si può immaginare, l'aglio soffritto nell'olio, perchè solo gli ebrei usavano l'olio, avevano questa salsa con cui ci facevano tutto. Questo odore di aglio soffritto impestò i loro abiti, e quando più tardi arrivarono quei mascalzoni dell'inquisizione parlarono di fetor iudaicus, che era questo. I monsù che arrivarono ancora più tardi scoprirono quella salsa e decisero che era ottima per assesonner, che vuol dire condire, dar sapore, a verdure insipide che prima si servivano bollite con pezzo di lardo sopra, allora queste verdure saltate con l'aglio e l'olio oggi si chiamano assassunate, quindi un pezzo di questa cucina cacher diventa cucina siciliana. Non scordiamo la caponata, la salsa agrodolce invece è persiana, arriva da noi con i mussulmani e non arabi, che non ce ne fu nemmeno uno in Sicilia. Gli arabi in Sicilia, come dice Benedetto Croci, furono un'invenzione di Michele Amari, perchè quelli che arrivarono da noi erano tunisini, egiziani e qualche marocchino, parlavano arabo, erano mussulmani, ma arabi non erano, perchè in quell'epoca per essere arabi si doveva essere nati in Arabia, i nostri nonni, con una dignità da accademia della crusca, li definirono saracini, e saracini erano, moros per gli spagnoli. Buona parte di questa cucina "araba", cioè "saracena", resta ancora, ed uno dei piatti più importanti è questa salsa agrodolce con cui fabbricammo un'insalata, perchè la caponata è un'insalata, per cui ognuno ci può mettere quello che ci pare e piace. Le ricette storiche sono 37, curiosamente viene citata per la prima volta in assoluto nel 1759 in un libro che si chiama Etimologicum siculum, stampato a Messina, dove alla voce caponata si legge come definizione: insalata di cose varie. La stessa cosa riprende nel suo primo dizionario il Mortillaro, solo più tardi a fine '800 nella seconda edizione c'è scritto, insalata di cose varie dove c'è una predominante di petronciane, che sono le melanzane, quindi la melanzana arriva tardissimo, si cominciò mettendo su una galletta, che si chiamava cappone di galera, da cui il nome caponata, che usavano i marinai bagnandola con acqua di mare, e poi mettendo sopra questa salsa agrodolce, poi il tonno salato, verdure, in un secondo tempo anche dei pescetti.

La pasta con le sarde è un piatto unico creato da un cuoco arabo, nasce a Siracusa nel 1085, ed è un piatto unico fatto con la pasta, la verdura e il pesce, quindi il primo piatto mari e monti della storia della cucina. Pure li visto che il pesce era quello puzzolente c'è la presenza del pinolo. Cugino di questa pasta è la pasta con i broccoli arriminati, che si facevano nel periodo in cui non si trovavano i finocchietti, allora al posto dei finocchietti si mettevano i broccoli, difatti per ricordare il tanfo delle sardi puzzolenti, nella pasta con i broccoli arriminati si mette la sarda salata abbondante, che deve servire sopratutto per il puzzo, e c'è passolina e pinoli, il pinolo ancora presente. Poi abbiamo dei piatti antichissimi che sono in genere sempre cacher o saraceni, per esempio la triglia alla livornese, nata a fine '800 con il pomodoro, prima invece che con il pomodoro si faceva con lo zafferano, io ho provato a rifarla in questo modo ed è una cosa deliziosa, perchè su questa salsa gialla c'è ilpesce rosso, e poi l'odore dello zafferano con il sapore della triglia si abbinano in un modo perfetto. Il pomodoro arriva tardi e fa dei danni spaventosi, spesso irreversibili, perchè si pomidorizza tutta la nostra cucina, distruggendola.

Per finire parlando di dolci, la cassata è quanto di più fasullo si possa immagginare. La cassata ha almeno più di 2.000 anni, la facevano i romani, caseatus o caseatum, era della ricotta addolcita con il miele e chiusa in una sfoglia di pasta di pane, e poi infornata. Questa è la cassata! La cassata al forno è la cassata autentica. La cassata quella con tutti i canditi, nasce nel 1893 per opera del cavaliere Salvatore Gulì, pasticcere palermitano di corso Vittorio Emanuele 373, il quale mette su una fabbrica di canditi. Dovendone sbolognare quanto più possibile questo si inventa questa cassata, che non poteva chiamare cassata, perchè la cassata c'era, allora la chiama cassata alla siciliana, la ricopre di canditi, un trionfo barocco, falso, un kitch di fine '800, e combina un grosso guaio, perchè mette insieme degli elementi che fanno un male da cani, perchè i canditi con la crema di ricotta e il marzapane vanno su e giù per circa 48 ore, ci vuole almeno mezzo chilo di bicarbonato per digerire una cassata. Che si chiama cassata alla siciliana lo sanno in pochi, oggi viene chiamata cassata e basta. Mia madre mi ha ricordato che a casa nostra si chiamava la cassata di Gulì, per distinguerla dalla cassata vera. I cannoli, sempre con la stessa ricotta addolcita, deriva da uno scherzo che si faceva a carnevale. Il cannolo è il rubbinetto che c'era nelle fontanelle pubbliche, negli abbeveratoi, lo scherzo è che invece di acqua esce crema di ricotta. Quindi è il dolce per eccellenza di carnevale. Ci sono due versioni, quella palermitana prevede sopra o il pezzetto di arancia candita o le due ciliege, quella orientale, la catanese, prevede la graniglia o di pistacchio o di mandorla.

Tratto dall'intervista a Gaetano Basile di Luigi Farina per la seconda puntata della rubrica I Sapori di oggi navigando della storia: Palermo e i suoi palazzi.

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