foto di Luigi Farina ©2005 |
Intervistare
Gaetano Basile è sempre un piacere, si starebbe
ore e ore ad ascoltarlo, oltretutto ringraziando
le innumerevoli ricerche da lui eseguite sugli
usi e costumi, sulla cucina tradizionale e sulla
storia di Palermo c'è sempre da imparare. Quando
ho iniziato a riportare questa intervista, mi
sono trovato davanti ad un bivio, o cercare di
sintetizzare l'intervista o di dividerla in modo
da non presentare una pagina troppo piena di
testo che avrebbe "spaventato" il visitatore. Mi
è sembrato più giusto scegliere questa seconda
strada ed ho quindi diviso l'intervista in tre
parti.
Parliamo adesso
dell'origine della gastronomia palermitana e da dove nascono tutti
quei piatti che l'hanno resa così famosa.
A Palermo ci sono tre cucine: la prima è
la cucina dei monsù (ndr: i cuochi dei baroni), che è la
cucina barocca, la cucina aristocratica, che è un po' quella che
oggi si chiama cucina internazionale, fare dei buoni piatti
servendosi di cernie, lepri, conigli, quaglie, pesce pregiato è
facile, per sbagliare una ricetta si deve essere proprio imbecilli,
la seconda è la cucina popolare o di reinvenzione spiritosa, come è
stata chiamata, e |
poi alla fine c'è la terza cucina,
quella di strada, chiamata dei "buffettieri" , che deriva o dal francese
bouffet o dallo spagnolo bufeta, che è il tavolo, quindi
roba che si vendeva per strada su un tavolo, questa cucina, cioè
quella delle stigghiole, della quarume, del musso,
è quella più antica della Sicilia, è veramente quella che ha i
quattro quarti di nobiltà, perchè era quella che si faceva nelle
città greche di Sicilia, nell'agorà c'era un angolo dedicato alla
cucina pronta, era un angolo coperto, dove si vendevano verdure
bollite, interiora bollite, interiora arrostite sulla brace, pesce
fritto, che si poteva o mangiare sul posto oppure portare a casa,
quindi 2.500 anni fa inventammo il fast-food e il take-away.
Curiosamente forse per una certa forma di ignoranza c'è un
accanimento comunale contro la cucina di strada, ogni occasione è
buona per cercare di distruggerla, e la mucca pazza, l'igiene, le
norme HACCP, c'è gente che non può sopportarla, se potesse vederla
distrutta, sparita, sarebbe felice. Questa mi sembra soltanto una
posizione da talebani, solo Sirchia può inventarsi una cosa del
genere. Non si può distruggere una cucina che ha 2.500 anni di dignità,
solo perchè c'è un problema di igiene. Una volta ad un congresso a
cui erano presenti gli assessori responsabili, dissi: "Scusate,
avete ragione, pensiamo a quante epidemie da quarume, quanti morti
da pane ca meusa, e i defunti da stigghiola dove li mettiamo? Ma non
facciamo ridere, signori miei! Non è morto mai nessuno. Ma che fa
scherziamo". Poi questi sono sporchi? Ognuno ha il suo "provider"
personale, io non andrei mai da uno che è sporco, è una selezione
naturale, quello sporco dura poco, quello pulito dura di più. Ecco
dov'è il concetto! non c'è bisogno di invocare le leggi, basta
invocare la "naturalezza" di questo tipo di mercato. Ed è una cosa
che andrebbe salvata a tutti i costi, perchè rimane pochissimo, già
attaccata da cose tipo il carrello con l'hot dog. Ma facciamo
ridere, l'hot dog nella patria del fast-food. Basta dire che abbiamo
McDonald, cioè andiamo a mangiare il panino con la polpetta quando
abbiamo il più economico panino con le panelle, che è pure più buono
e più sano. Cerchiamo di essere più onesti con noi stessi per
riappropiarci delle nostre realtà civili. Noi abbiamo vissuto un
mondo civile, abbiamo ancora i rimasugli, usiamoli.
Parliamo adesso della cucina più
interessante, che è quella popolare, cittadina o di reinvenzione
spiritosa. Perchè si parla di cittadina? Perchè, dicono gli
esperti, che non si può parlare di cucina contadina, perchè da
noi non ci fu una cucina contadina, ci fu un nutrirsi contadino.
Cioè questi mangiavano tutto quello che trovavano e buonanotte,
che cercavano di combinare nel modo più incredibile, ma questa
non è cucina, è nutrimento, è alimentarsi. La cucina cittadina
di reinvenzione spiritosa non è altro che la reinvenzione dei
piatti dei nobili. Per esempio i nobili si potevano permettere
di andare a caccia di beccafichi, che sono uccelletti simili
alla capinera, che hanno il piumaggio colore argento, il codino
a V nero, pesano si e no 30 g, ne buttavano giù a migliaia a
fucilate, si portavano in casa, i monsù lo spennavano, li
disossavano, mettevano da parte le viscere e interiora e li
farcivano con queste, lasciavano il codino e si presentavano in
bellavista per poterle prendere con il codino e farne un solo
boccone. La cucina da noi è stato da sempre un grande sistema di
comunicazione, e la comunicazione avveniva attraverso i servi di
casa, per cui la cameriera arrivava a casa al piano di sotto e
la mamma gli chiedeva: "Chi manciau u signor baruni?" e
la cameriera: "Manciau i beccaficu!", spiegando
cos'erano. Al che la madre per copiare i nobili prese le
sarde fituse, costavano di meno, li avvolse, lascio il
codino a V, e invece di condirle di interiora, li condì con
mollica di pane, un poco di odore di arancia o di limone, per
cercare di confondere il puzzo del pesce puzzolente, e
prudentemente ci mise i pinoli. In tutta la cucina popolare il
pinolo è presente perchè rappresenta nella medicina popolare
l'unico deterrente contro l'intossicazione alimentare,
praticamente è una bivitasi preventiva. E quindi nasce la
sarda a beccafico. La stessa sarda viene elevata al rango di
lenguado, i nobili mangiavano lenguado, da noi si
parlò spagnolo fino al 1741. Il lenguado in spagnolo è la
sogliola, per cui anche li per copiare le sogliole si prese una
sarda, aperta, deliscata, ed ecco le sarde al lenguado,
allinguata, la fregatura era che non ci si potevano
mettere i pinoli, allora bagnetto d'aceto, ed avevano risolto il
problema. Sempre in questa cucina di rappresentazione, i nobili
mangiavano le quaglie, allora si prese una melanzana tutta
intera con il gambo, che rappresentava un collo senza testa, due
tagli a fare le ali, quattro botte sul di dietro, per fare il
culo piumato della quaglia, fritta e servita su un piatto
sembrava una quaglia, la quaglia di melanzane. Con le
stesse melanzane un'altro piatto importante forse fondamentale
della nostra cucina, la parmiciana, con la "c" e non con
la "g", che altro non è che una persiana, quella con le
scalette, allora le fette di melanzane fritte venivano disposte
a scaletta, volendo rappresentare proprio una persiana, si
condiva con una spolverata di caciocavallo fresco, che simulava
il polverone della strada, a cui più tardi si aggiunse un
pochino di salsa di pomodoro, ma questo avvenne alla fine
dell''800. Addirittura se vogliamo fare la ricerca etimologica,
che viene dalle piccole cose, c'era una bellissima taverna in
corso dei Mille, gestita da una signora, a dir poco giunonica,
matrimoniale a due piazze, immensa, enorme, e il suo giovane
garzone di bottega, aveva una settantina d'anni, era alto un
metro e cinquanta, tanto è vero che d'inciuria (ndr:
soprannome) faceva "naticchio", che in siciliano non
è altro che il nottolino di rame con cui si chiude la persiana,
la signora quando arrivava in sala la teglia con la
parmiciana, perchè si serve sempre nella teglia
rettangolare, diceva: "Arriva la parmiciana cu naticchio".
Assieme a questa ci sono anche le incomprensioni della lingua
degli altri, per esempio un'altro piatto importante, come saprai
da noi non si mangiò mai carne vaccina, perchè i buoi servivano
per lavorare, le vacche per fare il latte, per fare i vitelli,
allora si abbattevano solo "bovi da guasto", cioè animali o
malati o sciancati (ndr: zoppi), oppure vecchi,
quindi la carne era dura, fibrosa, immangiabile. I monsù quando
arrivarono cercarono di vedre come fare per fare con quella
carne un piatto almeno mangiabile, e allora inventarono un
piatto di viand farcie de maigre, cioè carne farcita di
magro, dentro c'erano erbette odorini, ..., allora non
conoscendo il francese lo copiarono chiamandolo il falsomagro,
cioè esattamente il contrario, perchè la riempirono di salame,
uova sode, prosciutto, una cosa vergognosa, esattamente
all'opposto. Oppure il biancomangiare, che ha una origine
bellissima, ci viene da una ricetta del '200 francese, che era
il blant manger, che non era un piatto, che era una serie
di piatti blant, cioè "blandi", una serie di piatti per
convalescenti, puerpere, deboli di stomaco, dove c'erano il riso
in bianco, il petto di piccione o di pollo fatto a brodetto,
..., poi la parola blant scomparve per l'assonanza con
blanc, ma quando arrivò qui non lo sapevamo e pensammo che
si trattava di biancomangiare, solo che pensammo che
fosse un dolce e inventammo un dolce che si chiama ancora oggi
biancomangiare, che è proprio al contrario di "blando",
visto che di una pesantezza terrificante, perchè è un dolce da
14.000 calorie a boccone, e che per digerirlo ci vogliono 48
ore.
Poi ci sono i piatti per ingannare
il prossimo, come quello inventato da un'argentiera. Gli
argentieri erano considerati ricchissimi, perchè lavoravano oro
e argento, in realtà erano poverissimi perchè era il committente
a fornire la materia prima, poi si doveva consegnare il lavoro
finito, più i ritagli e le limature. Il tizio veniva pagato solo
per l'opera. Però all'occhio di tutto il vicinato erano ricchi.
L'unica cosa che li distingueva dal popolo minuto era che questi
avevano sempre il luce addrumato (ndr: il fuoco acceso),
perchè il fuoco serviva per lavorare, mentre gli altri non se lo
potevano permettere. Pensa che fino agli anni '50 nelle
informazioni prematrimoniali per definire il ceto, la solidità
economica di una famiglia, si diceva per esempio, "cuoce una
volta al giorno", o "cuoce una volta alla settimana", perchè
oltre alle spese del cibo c'erano pure quelle della legna e del
carbone, che non erano indifferenti, quindi basta pensare a
questo artigiano che aveva sempre il fuoco acceso, e allora la
moglie di uno di questi argentieri per fare schiattare (ndr:
morire) di invidia le vicine inventò un piatto che si fa a
bagnomaria, si mette una fetta di caciocavallo fresco, un filo
parsimonioso d'olio, un pochino di aglio, origano e due gocce
d'aceto, ora che cosa succede, che l'odore che sprigiona è
identico a quello del coniglio alla cacciatora, per cui tutte le
vicine, pensavano che l'argentiera cucinasse coniglio, invece
era solo formaggio, da qui nacque il cacio all'argentiera.
Ci sono cinquantamila casi di queste invenzioni spiritose, di
questa comunicazione fra la cucina dei nobili e quella dei
poveracci.
Adesso vorrei parlarti di un
piatto tipicamente palermitano, il cui successo dura da più di
1.000 anni, il panino con la milza, che è pure un test di
palermitaneità, che è un piatto molto curioso. Innanzitutto
bisogna precisare una cosa, che la gente non sa, quando si parla
di cucina siciliana tutti pensano che i nostri piatti siano in
buona parte di derivazione araba, invece non è vero per niente,
diciamo che il 60% e anche di più della nostra cucina è di
derivazione "cacher", cioè cucina ebraica, non lo sa
nessuno. Uno dei piatti più importanti creato dagli ebrei
palermitani fu proprio il pane con la milza. Per chi ha
frequentato una casa ebraica sa che in cucina ci sono due stipi,
in uno ci sono i piatti e le stoviglie per la carne o il pesce,
in un'altro invece per i derivati, cioè per il latte, per i
formaggi, per l'uovo di pesce, ... debbono essere sempre
separati, perchè secondo le norme del cacherut, da dove
deriva il cacher, non si devono mettere mai insieme la
madre e il suo prodotto, quindi mai mettere il latte insieme
alla carne. Nei macelli cacher, che a Palermo si trovava
dove adesso c'è l'odierno teatro Santa Cecilia, gli uccisori non
potevano essere pagati, perchè non si può pagare un prezio
sanguinis, anche se di animale si trattava, allora gli
uccisori venivano ricompensati con le interiora degli animali
abbattuti, ad esclusione del fegato, che era caro, e quindi si
vendeva a parte. Questi poveracci la sera tornavano a casa con
dei secchi pieni di budella, polmoni, milza, cuore, ..., e
dovevano sforzarsi di trasformare in danaro, e allora
osservarono i cristiani, che erano la maggioranza, gli ebrei
usavano l'olio d'oliva, i cristiani lo strutto, e abitualmente
mangiano le interiora aggiungendoci anche altri ingredienti tipo
formaggi, ricotta, ..., allora inventarono un "panino per
cristiani", misero insieme la milza, lo scannorozzato, cioè
tutte le cartilagini della gola del bue, il polmone bollito, che
si taglia a fette, si lascia soffriggere nello strutto bollente,
e si mette in mezzo ad un panino in compagnia di ricotta e
formaggio. Questa ricetta, che rimonta alla comunità ebraica di
Palermo, quindi siamo alla fine dell''800, cioè 1.100 anni fa ha
avuto un successo, che dura fino ai nostri giorni. Voglio
chiarire anche i due tipi di "focaccia" che si facevano, cioè
schetta o maritata, su cui c'è una grande confusione,
schetta era l'edizione economica, tutta bianca, di
ricotta e formaggio, quindi virginea, quando aveva la carne in
mezzo, come dicevano i nostri nonni che erano molto vastasi,
"vuol dire che è maritata". Questo è uno dei più grandi
successi di quella cucina arcaica. Ti voglio pure ricordare che
da questa cucina cacher vengono i tarales, che
sono i taralli, vengono la cubaita, quel dolce
fatto con lo zucchero fuso e dentro c'è la giugiulena, le
mandorle, le noci, le nocciole, vengono il torrone, le
zuppe di ceci, fagioli e lentichhe, le forme del nostro
pane, il torcigliato erano forme di pane degli ebrei, e
poi la cosa più importante, ed è una cosa veramente da
sottolineare, la tovaglia ricamata, quella del corredo
delle nostre madri, delle nostre nonne, viene proprio dalla
tradizione ebraica, perchè gli ebrei furono i primi ad usare
la tovaglia ricamata con le pezze da bocca, cioè con i
tovaglioli, un esempio brillantissimo è il mosaico del duomo di
Monreale, dove lavorarono maestranze che venivano da tutto il
bacino del mediterraneo. Ricordando che la cattedrale di
Monreale è della fine del 1100. Nella corte fastosa di Federico
II, già alla metà del 1200, gli ospiti si sedevano a terra su
dei cuscini, davanti ad un piccolo banco, che si chiamò
banchetto, uno da un lato e uno dall'altro, un piatto al centro,
ed ognuno si serviva con un coltello a punta, che faceva da
coltello e da forchetta, si mangiava spesso con le mani e non
esisteva la tovaglia, ed eravamo alla corte fastosa di Federico
II, mentre gli ebrei mangiavano sull'arcamesa, cioè su
una tavola apparecchiata con la tovaglia ricamata. Quando si
dovette rappresentare Cristo a tavola con gli apostoli, o le
nozze di Canne, o altre scene di pranzi, chiesero i mosaicisti:
"Questi sono ebrei? Allora a tavola con la tovaglia!",
difatti si vede Gesù a tavola con la tovaglia ricamata. Questo è
un segno di una grande civiltà. Buona parte della cucina
palermitana è cacher, e il piatto più importante, anzi la
salsa più nota della cucina cacher è una cosa
incredibile, una salsa che più miserabile, più ebraica non si
può immaginare, l'aglio soffritto nell'olio, perchè solo gli
ebrei usavano l'olio, avevano questa salsa con cui ci facevano
tutto. Questo odore di aglio soffritto impestò i loro abiti, e
quando più tardi arrivarono quei mascalzoni dell'inquisizione
parlarono di fetor iudaicus, che era questo. I monsù
che arrivarono ancora più tardi scoprirono quella salsa e
decisero che era ottima per assesonner, che vuol dire
condire, dar sapore, a verdure insipide che prima si servivano
bollite con pezzo di lardo sopra, allora queste verdure saltate
con l'aglio e l'olio oggi si chiamano assassunate, quindi
un pezzo di questa cucina cacher diventa cucina
siciliana. Non scordiamo la caponata, la salsa agrodolce
invece è persiana, arriva da noi con i mussulmani e non arabi,
che non ce ne fu nemmeno uno in Sicilia. Gli arabi in Sicilia,
come dice Benedetto Croci, furono un'invenzione di Michele
Amari, perchè quelli che arrivarono da noi erano tunisini,
egiziani e qualche marocchino, parlavano arabo, erano
mussulmani, ma arabi non erano, perchè in quell'epoca per essere
arabi si doveva essere nati in Arabia, i nostri nonni, con una
dignità da accademia della crusca, li definirono saracini,
e saracini erano, moros per gli spagnoli. Buona
parte di questa cucina "araba", cioè "saracena", resta ancora,
ed uno dei piatti più importanti è questa salsa agrodolce con
cui fabbricammo un'insalata, perchè la caponata è
un'insalata, per cui ognuno ci può mettere quello che ci pare e
piace. Le ricette storiche sono 37, curiosamente viene citata
per la prima volta in assoluto nel 1759 in un libro che si
chiama Etimologicum siculum, stampato a Messina, dove
alla voce caponata si legge come definizione: insalata di
cose varie. La stessa cosa riprende nel suo primo dizionario il
Mortillaro, solo più tardi a fine '800 nella seconda edizione
c'è scritto, insalata di cose varie dove c'è una predominante di
petronciane, che sono le melanzane, quindi la melanzana
arriva tardissimo, si cominciò mettendo su una galletta, che si
chiamava cappone di galera, da cui il nome caponata,
che usavano i marinai bagnandola con acqua di mare, e poi
mettendo sopra questa salsa agrodolce, poi il tonno salato,
verdure, in un secondo tempo anche dei pescetti.
La pasta con le sarde è un
piatto unico creato da un cuoco arabo, nasce a Siracusa nel
1085, ed è un piatto unico fatto con la pasta, la verdura e il
pesce, quindi il primo piatto mari e monti della storia della
cucina. Pure li visto che il pesce era quello puzzolente c'è la
presenza del pinolo. Cugino di questa pasta è la pasta con i
broccoli arriminati, che si facevano nel periodo in cui non
si trovavano i finocchietti, allora al posto dei finocchietti si
mettevano i broccoli, difatti per ricordare il tanfo delle sardi
puzzolenti, nella pasta con i broccoli arriminati si
mette la sarda salata abbondante, che deve servire sopratutto
per il puzzo, e c'è passolina e pinoli, il pinolo ancora
presente. Poi abbiamo dei piatti antichissimi che sono in genere
sempre cacher o saraceni, per esempio la
triglia alla livornese, nata a fine '800 con il pomodoro,
prima invece che con il pomodoro si faceva con lo zafferano, io
ho provato a rifarla in questo modo ed è una cosa deliziosa,
perchè su questa salsa gialla c'è ilpesce rosso, e poi l'odore
dello zafferano con il sapore della triglia si abbinano in un
modo perfetto. Il pomodoro arriva tardi e fa dei danni
spaventosi, spesso irreversibili, perchè si pomidorizza tutta la
nostra cucina, distruggendola.
Per finire parlando di dolci, la
cassata è quanto di più fasullo si possa immagginare. La
cassata ha almeno più di 2.000 anni, la facevano i
romani, caseatus o caseatum, era della ricotta
addolcita con il miele e chiusa in una sfoglia di pasta di pane,
e poi infornata. Questa è la cassata! La cassata al
forno è la cassata autentica. La cassata
quella con tutti i canditi, nasce nel 1893 per opera del
cavaliere Salvatore Gulì, pasticcere palermitano di corso
Vittorio Emanuele 373, il quale mette su una fabbrica di
canditi. Dovendone sbolognare quanto più possibile questo si
inventa questa cassata, che non poteva chiamare
cassata, perchè la cassata c'era, allora la chiama
cassata alla siciliana, la ricopre di canditi, un trionfo
barocco, falso, un kitch di fine '800, e combina un grosso
guaio, perchè mette insieme degli elementi che fanno un male da
cani, perchè i canditi con la crema di ricotta e il marzapane
vanno su e giù per circa 48 ore, ci vuole almeno mezzo chilo di
bicarbonato per digerire una cassata. Che si chiama cassata
alla siciliana lo sanno in pochi, oggi viene chiamata
cassata e basta. Mia madre mi ha ricordato che a casa nostra
si chiamava la cassata di Gulì, per distinguerla dalla
cassata vera. I cannoli, sempre con la stessa ricotta
addolcita, deriva da uno scherzo che si faceva a carnevale. Il
cannolo è il rubbinetto che c'era nelle fontanelle
pubbliche, negli abbeveratoi, lo scherzo è che invece di acqua
esce crema di ricotta. Quindi è il dolce per eccellenza di
carnevale. Ci sono due versioni, quella palermitana prevede
sopra o il pezzetto di arancia candita o le due ciliege, quella
orientale, la catanese, prevede la graniglia o di pistacchio o
di mandorla.
Tratto
dall'intervista a Gaetano Basile di Luigi Farina
per la seconda puntata della rubrica I Sapori
di oggi navigando della storia:
Palermo e i suoi palazzi.
dal
sito di
Gaetano Basile by
www.spaghettitaliani.com
|