a
cura di
Luigi Farina
5ª
Puntata - Babbalùci di Sicilia: delizia di
baroni e villani
indice puntate
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“Ziti a vasàri
e babbalùci a sucàri nun pònnu mai saziàri”
che sarebbe un italico “innamorate da baciare
e lumachine da succhiare non possono mai saziare”.
Con il termine “babbalùciu”, al
singolare, dal greco arcaico “boubalàkion”
che sta per piccolo bufalo per via delle corna,
si intende la Helix pisana, piccola e
biancastra, che è comunissima sopratutto nei
dintorni di Palermo e Trapani. Anche se i
palermitani non disdegnarono i “babbaluci
cilesti”, cioè la Jantina communis
dalla conchiglia fragilissima e di color ceruleo
che un tempo si trovava in abbondanza nel golfo
di Palermo. Vera ghiottoneria furono altre due
specie marine: la Natica millepunctata
(oggi rara) e la Natica castanea.
Quella terrestre,
raccolta aggrappata alle stoppie, è la vittima
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sacrificale per
festeggiare degnamente il Festino,
l’ultima grande festa barocca europea. Una sorta
di immenso ex voto popolare per Santa Rosalia
che liberò la città e i suoi abitanti dalla
peste del 1624. Sono centinaia di ceste,
quintali di queste lumachine “cornute”
che i palermitani consumano in quella occasione,
accompagnandole con vino abbondante malgrado i
40° all’ombra.
Sono tre le
famiglie di lumache terrestri conosciute in
Sicilia. Anche se esiste una notevole confusione
nei nomi a seconda delle zone linguistiche.
Alla famiglia più
numerosa e nota appartengono i babbalùci,
voce ufficiale della lingua siciliana, con cui
s’intendono le chioccioline appartenenti alla
famiglia della Helix pisana. Quel termine
si complica nelle varie province diventando
vavalùci, cazzicàddi e bucalàci.
Alla seconda
famiglia appartengono gli “attuppateddi”
Helix naticoides, caratterizzati da una
membrana mucoso-calcare che chiude l’apertura
del nicchio testaceo. Sono comunissimi nelle
terre argillose dopo le prime piogge autunnali
Si difendono dalla calura rifugiandosi a oltre
un palmo di profondità. Quando escono dal loro
rifugio sono ricoperti di fango per cui vengono
detti “attupateddi nìuri”. A seconda
delle varie zone linguistiche isolane prendono
nomi bizzarri come izzu, scaùzzu,
scataddìzzu, munacheddi…
La terza famiglia
è quella dei “crastùni”, Helix
vermiculata, italiana vignaiola o
martinaccio. Il colore è bruno-verdastro.
Per questo motivo vengono indicati anche con il
nome di “setti sordi” o “carrìnu”,
rassomigliando ad una di quelle monetine in rame
che si ossidavano diventando verdastre quando si
perdevano in campagna. Ma pure barbàniu,
muntuni…
Conchiglie delle
tre specie e marine, sono state rinvenute in
grotte e insediamenti umani più antichi: quando
si provvedeva alla raccolta del cibo. Non
mancavano nella grotta di San Teodoro nel
messinese dove è stato recuperato lo scheletro
più antico di Sicilia, vecchio di oltre 11.000
anni. E’ quello di una giovane donna, integro in
ogni sua parte. Fu chiamata “nonna Tea”
dai suoi scopritori.
Sapevano
sicuramente sin da allora che le lumache, prima
di essere preparate, vanno “spurgate” cioè
tenute a digiuno per almeno tre giorni. Lo
dimostrano alcuni reperti fittili, custoditi al
Museo Paolo Orsi di Siracusa, consistenti in una
sorta di recipiente circolare di circa cinquanta
centimetri di diametro, poco più di quindici di
altezza, con un coperchio a piccoli fori per
permetterne l’aerazione!
Oggi si alimentano
per tre o quattro giorni con farina, crusca o
pane raffermo, in un cesto ricoperto di uno
strofinaccio in attesa di essere cucinati. Si
usa principalmente con “crastuni” e “attupateddi”
perché, uscendo dal letargo brucano qualsiasi
vegetale, erbe velenose comprese, che per loro
non sono dannose, ma tossiche per gli umani.
LE
RICETTE
“Babbaluci a
picchi pacchiu”
Dopo averle lavate
ben bene si pongono in un tegame il cui bordo si
ricopre di sale umido facendo attenzione a non
farlo cadere nell’acqua. Si comincia con un
fuoco bassissimo che permette di fare uscire le
malcapitate dal guscio. Appena saranno stordite
si alza la fiamma, si aggiunge il sale e si
lasciano bollire per qualche minuto e quindi si
scolano. In tegame si fa soffriggere in olio
d’oliva la cipolla tritata, si aggiungono dei
pomidori pelati a pezzetti, sale e pepe quanto
basta. A sugo ristretto si aggiunge il
prezzemolo e le lumachine. Bastano pochi minuti
per insaporire.
“Babbaluci
del Festino”
Dopo la cottura
come sopra indicato, si provvederà a preparare
la salsa. In tegame si farà soffriggere l’aglio,
rosso o rosa, in olio d’oliva, sale quanto
basta, ma pepe nero abbondante. Aggiungere le
lumachine e il prezzemolo. Anche in questo caso
bastano pochi minuti per insaporire.
“Crastuni
fritti”
Dopo la cottura,
con l’aiuto di uno stuzzicadenti, si estrarranno
dal guscio. A questo punto basterà togliere il
filettino nero e passarle una ad una prima nella
farina poi nell’uovo battuto e quindi nel
pangrattato. Vanno fatte dorare nell’olio
d’oliva bollente ponendocele poche per volta. Si
servono ben calde.
“Crastuni
del Monsù”
Variante elegante,
baronale, della ricetta precedente. Tolte dal
guscio si fanno saltare in padella con burro e
aglio. Si aggiunge il prezzemolo al momento di
servire.
“Attupateddi
ccu sucu russu”
Dopo la cottura
identica a quella di babbaluci e crastuni, si
provvederà alla salsa rossa. In tegame si
soffrigge la cipolla in olio d’oliva; quindi si
aggiungeranno, poco alla volta delle nocciole di
estratto di pomodoro ben concentrato, fino alla
consistenza desiderata. Aggiungere sale e
(molto) pepe e servire ben caldo.
“Attuppateddi o crastuni arrustuti”
E’ piatto tipico
della Sicilia orientale. Le lumache si mettono
su una griglia con brace viva per cinque/sei
minuti. Sistemate in una zuppiera vanno condite
con un ottimo olio d’oliva extra vergine, sale e
pepe. Mescolare bene con cucchiaio di legno
prima di servire.
A
TAVOLA
Mangiare “comme
il faut” le lumache è segno di
riconoscimento: debbono succhiarsi direttamente
dal guscio dopo che con i canini si è creato
quel forellino che ne permette la fuoruscita.
Insomma, sicilianità vuole che a ciascuna di
loro sia riservato un bacio post mortem. E’
chiaro che è previsto soltanto l’uso delle dita,
della bocca e una notevole forza aspirante.
Soltanto alle giovinette di buona famiglia fu
consentito l’uso di un uncino (d’argento,
naturalmente…) per evitare quel poco elegante
risucchio.
“Cui vivi acqua
ccu li babbalùci, sunàti li campani pirchì è
mortu”: mai acqua, dunque, ma un bicchiere
di buon vino. Da un bianco d’Alcamo a un nero d’Avola:
dipenderà dalla salsa.
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Gaetano
Basile, palermitano DOC, è
giornalista, scrittore, autore di testi
teatrali, fine narratore, ma sopratutto
ricercatore appassionato di tutto quello
che è cultura e tradizione popolare,
sopratutto nel settore enogastronomico.
Ha svolto attività giornalistica e
televisiva, divulgando tutto ciò che è
cultura siciliana, tanto da meritarsi
diversi premi. Vive e lavora a Palermo,
dirige la rivista di etnoantropologia
"Il Pitrè" e collabora con numerose
testate nazionali ed estere.
In questo
spazio Gaetano Basile ci offrirà i suoi
contributi per darci la possibilità di
conoscere meglio la cultura
eno-gastronomica siciliana, e
palermitana in particolare, parlandoci
dell'origine delle pietanze che hanno
reso famosa la cucina siciliana, o di
quelle a volta meno conosciute, che
andrebbero riscoperte, raccontandoci la
loro storia e di come si sono
trasformati nel tempo. |
Il sito di Gaetano Basile
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