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A tavola con l'esperto

a cura di Luigi Farina


4ª Puntata - Il Baccal

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In ogni angolo di Sicilia, sui banchi del pesce non mancò mai il baccalà. Che si vendeva sempre “ammollato”. Mostrava i suoi carnosi filetti come spudorate intimità. Oggi si trova in ammollo in laide bacinelle di polietilene coloratissimo; una volta in graziose vaschette con lo zampillo. A seconda delle stagioni, quel biancore era interrotto da un grosso pomodoro maturo oppure da un bel ravanello. Quel rosso violento serviva ad attirare l’attenzione delle massaie: era quel che oggi si dice un “window” in termini di marketing pubblicitario.

Era stato scoperto, nel 1431, da Piero Querini, un mercante veneziano che aveva fatto naufragio alle isole Lofoten, nel nord della Norvegia. Quel pesce essiccato permise le prime, lunghissime navigazioni atlantiche. Una scoperta determinante per la cambusa dei bastimenti d’epoca: un prodotto leggero, altamente proteico e a lunga durata.

Forniva proteine in grado di equilibrare un’alimentazione a base di gallette, pesce salato in barile e frutta secca.

In Sicilia ci arrivò a metà del XVIII secolo quando il pescato cominciò a scarseggiare. E in mare c’era da fare i conti pure con la pirateria che impediva ai pescatori di allontanarsi dalla costa. Mentre conventi, monasteri e devoti osservanti riservavano ben 131 giorni all’anno al “mangiar di magro”.

Già nei primi anni di regno di Carlo III di Borbone si parlava di consistente calo del pescato. Il settore languiva e la colpa fu attribuita a delfini e squali che infestavano le zone di pesca. Anche se molti ne addebitarono le colpe all’abuso di reti a maglie strettissime e il ricorso a “ordegni di polvere pirica” e certi “funesti veleni” usati da pescatori disonesti.

Si arrivò a invocare dal Papa un “anatema solenne” contro delfini e squali!

Più laicamente sia Carlo III che suo figlio Ferdinando emanarono leggi assai severe per evitare la distruzione di flora e fauna dei fondali. E nel contempo si autorizzò, già nel 1790, l’importazione di “aringhe e merluzzi essiccati, affumicati e salati” dal Nord Europa. E pure dalla lontanissima America.

Baccalà viene dal basso tedesco-scandinavo “bakkel-jau”, bastone pesce; stoccafisso sta per “stock-fish” che è pur sempre un bastone pesce. Ma in inglese.

In Sicilia diventarono “piscistoccu” e “baccalàru”. Quest’ultimo, precisa il dizionario siciliano, “in senso osceno sta per sesso femminile”.

Se i messinesi impazzirono per lo stoccafisso, i palermitani, giusto per fare il contrario, si scoprirono una vera passione per il baccalà. Fra nobili e plebei fu lotta all’ultima ricetta.

Fu così che quel pesce nordico venne a concludere la sua terrena esistenza in un mediorientale tripudio gastronomico di zafferano e “passuli di zibibbu”.


Gaetano Basile, palermitano DOC, è giornalista, scrittore, autore di testi teatrali, fine narratore, ma sopratutto ricercatore appassionato di tutto quello che è cultura e tradizione popolare, sopratutto nel settore enogastronomico. Ha svolto attività giornalistica e televisiva, divulgando tutto ciò che è cultura siciliana, tanto da meritarsi diversi premi. Vive e lavora a Palermo, dirige la rivista di etnoantropologia "Il Pitrè" e collabora con numerose testate nazionali ed estere.

In questo spazio Gaetano Basile ci offrirà i suoi contributi per darci la possibilità di conoscere meglio la cultura eno-gastronomica siciliana, e palermitana in particolare, parlandoci dell'origine delle pietanze che hanno reso famosa la cucina siciliana, o di quelle a volta meno conosciute, che andrebbero riscoperte, raccontandoci la loro storia e di come si sono trasformati nel tempo.


Il sito di Gaetano Basile

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