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La cucina modenese, che coi tortellini in brodo e lo zampone dai mille contorni, raggiunge ineguagliabili vertici culinari di livello internazionale, pare abbia un vistoso collasso quando giunge il momento del dessert. La considerazione appartiene a Massimo Alberini, giornalista e scrittore, che è stato il più importante storico della gastronomia italiana. Il giudizio è per buona parte condivisibile, anche se pecca di un'incompleta conoscenza delle usanze "minori", a volte sommerse, che rappresentano la memoria, purtroppo non sempre scritta, della tradizione. La citazione è tratta da uno dei "romanzi" di cucina coi quali Alberini ha dato dignità storica alle abitudini alimentari di una regione apprezzata, forse, soltanto per i suoi piatti molto popolari, ma la cui cucina possiede anche tanti altri piccoli tesori che meriterebbero maggior diffusione. In "Emiliani e romagnoli a tavola" (Longanesi, 1969), Massimo Alberini scrive che "la solidità della cucina emiliana e romagnola, espressa da primi e secondi piatti, e dalla "punta" di formaggio grana "parmigiano-reggiano" che apre il dessert, porta, inevitabilmente, adun tracollo, o quasi, in materia di dolci".

L'apodittico giudizio, soprattutto perchè Alberini, fra la prima e la seconda guerra mondiale, a Modena ci ha anche abitato, è temperato nelle pagine seguenti da un grande affetto per una città, al cui richiamo, soprattutto quello dell'amico Giorgio Fini, non ha mai saputo resistere. La considerazione, tuttavia, non va letta come un "difetto" ma piuttosto come una "caratteristica". Modena, infatti, è il luogo dove, dopo tortellini e zampone, l'occhio del commensale si fa languido e scivola più volentieri nella scollatura della bella vicina di posto a tavola che verso il dolce che il cameriere sta servendo.

La cucina modenese non vanta grandi, complicati, dessert, ma dolci casalinghi, paciosi, quasi esausti, perchè proposti alla fine di un pranzo che, probabilmente, ha già dato il meglio di sè strada facendo. Ciò non toglie che la sua gastronomia sia ricca di golose preparazioni che completano alla perfezione il gran finale della tavola. Molte sono legate ad abitudini locali (la Colomba di Pavullo, gli "sguazaròt" della Bassa, i "zucarèin" montanari, ecc.), mentre altre rappresentano variazioni sui grandi temi della pasticceria regionale che in Italia non ha mai trovato, a parte il panettone milanese, un simbolo nazionale come, ad esempio, è per l'Austria la famosissima "Sacher Torte".

Il dolce modenese più classico, semplice e antico è il bensone. La sua preparazione è rimasta immutata nei secoli, come quando, nel 1300, il 1° dicembre, giorno dedicato a Sant'Eligio, patrono dei fabbri e degli orafi, la comunità modenese lo offriva in dono alla Corporazione di questi artigiani. Sant'Eligio, che nella storpiatura popolare divenne poi "Sant'Alò" (forse una deformazione del francese Saint Elois), è ancora ricordato dai vecchi modenesi in una buffa cantilena, probabilmente indirizzata ai bambini, che dice fra l'altro: "Sant'Alò ch al murè po' al s'amalò" (Sant'Eligio che mori e poi si ammalò).

La ricetta del bensone, a quei tempi, prevedeva un impasto di farina, uova, burro, latte e miele. Quest'ultimo ingrediente - come in tutte le altre preparazioni di cucina - ha poi lasciato il posto allo zucchero, prima di canna e successivamente di barbabietola, quando nel 1747 Sigismondo Margraff scoprì nella "beta vulgaris" l'esistenza del saccarosio. Oggi come ieri, il bensone arriva in tavola alla fine del pranzo, quando i bicchieri di lambrusco sono ancora da vuotare completamente ed è piacevole inzupparvi, un po' alla volta, la pasta dorata e morbida, che prende subito il colore viola del vino.

Il bensone (nella Bassa modenese chiamato "belsòn" o "busilàn") ha un'etimologia suggestiva. Qualcuno l'attribuisce alla ritualità della sua presenza sulla tavola in certe occasioni religiose. Pane di benedizione, dal francese "pain de bendson", invece, è l'interpretazione semantica suggerita dai glottologi che hanno studiato i numerosi collegamenti fra il dialetto modenese e la lingua francese (basterebbe pensare al geminiano "tirabusòun", levatappi, e al gallico "tirebouchon"). Un tempo, infatti, in occasione del Sabato Santo e d¹altre festività religiose, c'era l'usanza di far benedire in chiesa il semplice dolce. Altri, però, propendono per la derivazione dal francese "pain de son", pane di crusca, che è altrettanto accettabile dell'altra, sia per la stessa origine straniera sia, un tempo, per preparare il bensone si usava proprio la farina non setacciata. Con lo stesso impasto si preparava anche la ciambella ("brazadèla"), che per tradizione religiosa era regalata ai giovani cresimati. Secondo una consuetudine della Diocesi, rispettata almeno sino al 1920, il sacramento era impartito soltanto in Duomo: la domenica di Pentecoste ai ragazzi e alle ragazze del Comune di Modena e il lunedì successivo a quelli della montagna e della Bassa. In quei due giorni, le strade vicino al Duomo si riempivano di bancarelle che, oltre a coroncine, rosari e libretti da messa con la copertina di finta madreperla, vendevano le simboliche ciambelle. Erano rotonde, con un largo foro al centro secondo l'usanza, risalente al XIII secolo, di portarle infilate in un braccio, durante la tradizionale visita dei cresimati ai parenti.

Il pane di Natale è un altro dolce d'antichissima tradizione che si prepara anche oggi esclusivamente in prossimità delle feste, per consumarlo il 25 dicembre. La ricetta consiste in un ricco impasto di farina, uova, zucchero, burro, noci, pinoli, pezzi di cedro e ciliegie canditi, mandorle, uvetta passa, cioccolato e cacao in polvere, arachidi e scorza di limone. Per mantenerlo morbido a lungo, si usa ancora spennellarlo quasi tutti i giorni con la "saba", a ma-no a mano che si avvicina il giotno di Natale. Questo dolce trova ascendenze nel "Pan di Natale", ricordato nel 1644 da Vincenzo Tanara nel suo "L'economia del cittadino in villa" (farina, lievito, sale, acqua, uva sec-ca, zucca condita col miele e pepe), e analogie molto strette col "Pan speziale" (pasta, mele, zucca, scorza d'arance candite e pepe) e il "Pan pepato" di Ferrara e Arezzo (pasta, miele, pepe e aran-ce candite) e i moderni "Panforte" di Siena e "Certosino" di Bologna.

Le frappe restano il tipico dolce di Carnevale, che con forme nomi diversi ("sfrappole" a Bologna, "spréll" a Parma, "chiacchiere di monaca" a Busseto, "intrigòun" a Reggio Emilia, "cenci" in Toscana, "galani" e "gròstul" nel Veneto, "bugie" in Piemonte, ma anche "nodi", "zeppole", "donzellini", "frangette", "fiocchi", ecc.) è diffuso in ogni regione italiana. Le stesse definizioni, spesso, ne denunciano l'origine conventuale. Ancora oggi, sono consumate volentieri con la panna montata, quella che un tempo era chiamata lattemiele, perchè la panna era mantecata col miele. Nel XVI secolo, questa specialità era, come si dice oggi, il cavallo di battaglia di Mastro Vincenzo, abilissimo "confettiere" alla corte estense, "esperto nel battere lattemiele e fabbricar cialdoni".

Sino agli anni 50 del secolo scorso, a Modena, la panna montata migliore si poteva gustare, quasi per tutto l'anno, al banco dei gelati del Caffè Comini in piazzetta delle Ova, al cui posto c'è ora il ne-gozio di Max Mara. Il Caffè Comini esponeva i tavolini in uno dei punti più freschi della città e ospitava sino alle ore piccole i modenesi ritar-datari, capaci di tirare l'alba a discutere indifferentemente di calcio o motori, di lirica o belle donne.

Un altro dolce tipico, che pesca le sue origini addirittura nella cucina ri-nascimentale, caratterizzata dal "leit motiv" dell'unione del dolce e del brusco, sono i tortelli fritti, ripieni di marmellata ma anche di "savór" o di mostarda di Carpi. La tradizione ne ha conservata praticamente in-tatta la ricetta, che li vuole sulla tavola natalizia con la zuppa inglese.

Oggi, i tortelli ripieni di "savór" preparati nei moderni forni robotizzati non hanno più la fragranza di quelli di un tempo, ma per le massaie modenesi rappresentano ancora la gratificante possibilità di dare sfogo al loro estro cu-linario. Conosco almeno dieci modi, infatti, d'imbottire la pasta frolla tagliata a semiluna. I ripieni a base di "savór", marmellate varie, cioccolata, castagne, mandorle, ecc. offrono libero sfogo alla creatività.

Tra le più tipiche tradizioni gastronomiche perdute, in confini geografi-ci che si allargano appena oltre il Secchia e il Po, nelle basse nebbio-se del Reggiano e del Mantovano, va annoverata quella dell'utilizzo del mosto cotto. Dall'uva, infatti, non si ottiene solo il vino: una piccola e particolare gamma di prodotti gastronomici deriva dalla prolungata bollitura del mosto, il primo passo degli acini nel lungo e difficile cammino per diventare la più antica bevanda conosciuta dall'uomo. Si tratta della Mostarda di Carpi, della "saba", del "savór" e dei "sùghi".

Sebbene si parli di dolci, bisogna ricordare che i primi tre possono essere serviti anche come accompagnamento d'alcuni piatti di bollito e arrosto, ma anche della polenta, in particolare se fritta, e dei "chelzagàt". La "saba", citata persino da Pellegrino Artusi ("è poi sempre gradita ai bambini che nell'inverno, con essa e colla neve caduta di fresco, possono imprvvisare dei sorbetti"), si usa per la preparazione di rustici dolci e come base di partenza per il "savór", impiegato a sua volta soprattutto per i tortelli fritti o cotti al forno.

La "saba" ha origini remote. Cristoforo di Messisbugo, cuoco alla corte estense, la chiama "sabba", il bolognese Vincenzo Tanara "sappa" e "sapa" il ferrarese Ludovico Ariosto, che la consiglia nelle "Satire" per insaporire le rape. Ancora prima, la maniera di cuocere il mosto è descritta da Plinio nel "Naturalis Historia" e da Columella nel "De re rustica". L'inventore della mostarda di Carpi apparteneva alla famiglia dei Sebellini, che già nel XVI secolo erano conosciuti come "quelli della mostarda". Professionisti molto seri, pare abbiano costretto i figli a giurare che non avrebbero mai rivelato il segreto della sua preparazione. Questa singolare salsa d'accompagnamento alle carni e ingrediente per alcuni dolci è ricordata anche da Alessandro Tassoni in una delle ottave dell'ultimo canto de ³La Secchia Rapita", dove Carpi è definita "città della mostarda fina".

La citazione si trova nel corso del lungo e dettagliato racconto dei regali che Modenesi e Bolognesi fanno al Cardinale Ottaviano degli Ubaldini ("uomo ch'in zucca avea di molto sale"), dopo che questi ha risolto la vertenza scatenata per il furto della piccola secchia di legno perpetrato dai geminiani a danno dei petroniani. Il Legato pontificio se ne torna a Bologna con "trenta rotelle (scudi rotondi di piccole dimensioni; n.d.r.) e una cassa di maschere bellissime, e due some (carichi da basto di circa 1 quintale; n.d.r.) di pere garavelle (granulose; n.d.r.), e cinquanta spongate perfettissime, e cento salcicciotti e due cupelle (grosse coppe; n.d.r.) di mostarda di Carpi isquisitissime, e due ciarabottane d'arcipresso (cerbottane di cipresso; n.d.r.), e trenta libre di tartufi appresso". Questi sono i regali dei bolognesi. I modenesi, meno prodighi, gli hanno donato "di trebbian perfettissimo un quartaro (un quarto di botte; n.d.r.) e in sei canestre ventiquattro torte e una misura, che tenea un caldaro (due barili; n.d.r.), di sughi d'uva, non più visti in corte, e, per cosa curiosa e primaticcia, quarantacinque libbre di salciccia".

Questa la storia. In pratica, si tratta dell'usanza di cuocere a lungo il mosto del vino rosso sino a ridurlo di volume per poi aggiungervi vari tipi di frutta e ottenere una densa marmellata da utilizzare in tanti modi. I "sùghi", invece, sono una versione più semplice ed economica.

Con l'aggiunta di mosto cotto alla farina si ottiene una "polentina" dolce che può essere raffreddata, solidificata e mangiata come energetica merenda. L'abitudine di preparare "saba" e "savór" s'è andata a mano a mano perdendosi. Oggi, infatti, ben poche famiglie, se non abitano in campagna, possono ancora disporre della casa e degli strumenti adatti per la lunga preparazione dei derivati del mosto. Mostarda di Carpi, "saba" e "savór", però, si possono comprare già pronti. Ancora oggi c'è chi li adopera (oltre che per attenuare il sapore dolce dei tortelli di zucca) per insaporire il ripieno dei tortelli da cuocere al forno. Per quest'ultimo dolce esistono tante ricette, ma dalla mia memoria emerge ancora nitido il ricordo di ottimi tortelli gustati, molti anni fa, in un forno che non c'è più. Era conosciuto come Forno Svizzero e rappresentava la punta modenese d¹una lunga tradizione di pasticceri che, fra la fine dell'800 e l'inizio del '900, erano calati in Italia dal Cantone dei Grigioni. Erano i Klanguti di Genova, i Caflish di Napoli e Palermo, i Caviezel di Catania e i Witalbrun, i Mayer e i Kübler di Modena.

Oggi, anche a Modena, molti degli ottimi pasticceri presenti sono saliti dal Sud e sono riusciti ad affiancare, ai gusti locali, la ricotta alla crema e i cannoli ai bignè.

La zuppa inglese, uno dei dolci considerati più tipici della cucina modenese, ha ­ al contrario - origini incerte. Nessuno, finora, è riuscito a dare una credibile spiegazione all'etichetta che si porta dietro. Non esistono documenti in proposito, ma pare che anche a Modena questo dolce, almeno nella preparazione seguita tuttora, cominci a comparire sulle tavole nella prima metà dell'800. C'è chi la definisce una zuppa "alla moda inglese" e chi, addirittura, azzarda una suggestiva tesi. Leo Codacci, in "Civiltà della tavola contadina", afferma che la zuppa inglese sarebbe stata "inventata" da una donna di servizio di una famiglia inglese residente sulle colline di Fiesole. Quella contadina toscana, avvezza da generazioni a non gettare niente di quanto restava sulla tavola, non riusciva a buttare via la biscotteria secca servita durante la giornata a corredo del tè o del Porto. Volendo fare economia anche in casa di chi non ne aveva bisogno, la domestica pensò di utilizzare quella grazia di Dio e di mescolare gli "avanzi" dei biscotti, della crema pasticceria (detta anche inglese) e del budino di cioccolato.

Nacque così, probabilmente, quel meraviglioso dolce al cucchiaio che è entrato prepotentemente in quasi tutte le cucine regionali italiane, anche se solo nella versione modenese vanta le accese bicromie del giallo e del rosso che ne fanno un piatto assolutamente "solare". La zuppa inglese non era un dolce della tradizione contadina, ma apparteneva agli usi delle famiglie borghesi, cui si deve il ricorso, un tempo abbastanza frequente mentre oggi quasi solo domenicale, all'abitudine del dessert. L'usanza è codificata anche da quel "santone" di Pellegrino Artusi, il quale nel 1891, nella prima delle oltre cento edizioni de "La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene", dedica ampi capitoli ai dolci, che divide in pasticceria, torte e dolci al cucchiaio, siroppi (sic), conserve, liquori, gelati e cose diverse (sic). Del secondo capitolo (ricetta numero 675), fa parte anche la zuppa inglese, per la cui preparazione il "gourmet" romagnolo usa già savoiardi, alchermes e rosolio, suggerendo però, a differenza dell'abitudine "moderna", di usare come primo strato, in fondo allo stampo rovesciato, della marmellata di albicocche, pesche o mele cotogne. A deporre a favore dell'origine tosco-inglese della zuppa inglese, che il poeta dialettale napoletano Cesare Pascarella defini 'na sciccheria, c'è anche l'alchermes. Il liquore, anticamente, era prodotto a Firenze, con alcol e giulebbe, dai frati certosini e da quelli di Santa Maria Novella, e colorato con una polvere ricavata da una specie di cocciniglie femmine essiccate e macinate. Oggi, benchè confezionato industrialmente e usato nella preparazione di tanti dolci, conserva il nome che deriva da "al quermez", "kermes" e "quirimiz", parole che in spagnolo, in portoricano e in arabo, appunto, significano cocciniglia.

In Italia, perchè l'abitudine del dolce domenicale (fatto in casa o acquistato in pasticceria poco importa) s'attesti in quasi tutte le famiglie, bisogna attendere l'inizio degli anni 30 del '900. La nostra produzione alimentare - ricorda Massimo Alberini in "Storia del pranzo all'italiana" - si trasformerà da grosso artigianato in industria di media potenzialità, presto in grado di allinearsi, per quanto riguarda la distribuzione del prodotto in tutto il paese, coi manufatti di lana e raion, gli elettrodomestici e persino i carburanti. Angelo Motta, grazie a un pubblicitario geniale come Dino Villani, lo stesso che inventerà il concorso di Miss Italia, riusci a inserire il panettone nelle abitudini domenicali d'ogni italiano. Presto in concorrenza con Alemagna, anche lui milanese, Motta aprì prima a Milano, poi in altre grandi città italiane, le più lussuose pasticcerie d'Europa. Il rivale non restò a guardare e impose il suo marchio a Milano, Roma, Torino, Genova e Napoli.

Un'altra abitudine entrò a far parte del costume nazionale. Sul banco della pasticceria, comparvero pizzette, tramezzini, toast e tartine, consumati, fra le cinque e le sei del pomeriggio, come il raffinato succedaneo della semplice merenda domestica di un tempo. A Modena, un compito analogo lo svolgono altri tipi di snack, di solito dolci. Sono, tra gli altri, gli amaretti e la Torta Barozzi (tra quelli più raffinati) o il castagnaccio e il croccante (tra quelli d'origine contadina). Gli amaretti modenesi sono sostanzialmente diversi da quelli che si possono gustare in altre regioni italiane, in Piemonte (Acqui), Lombardia (Saronno) e Uguria (Albenga). Rispetto a questi, e anche agli "amarettus" sardi, sono molto più morbidi e fragranti. Antiche e tipicamente famigliari (come il solito) le diverse ricette modenesi. Per tutte ricordo quelli di Spilamberto, i più croccanti, e quelli di Gastone, pasticciere-fornaio con bottega e laboratorio al Ponte della Pradella a Modena.

La Torta Barozzi nacque circa un secolo fa a Vignola, dove si era trasferito un pasticciere modenese, Eugenio Gollini. Questi, con mandorle, cioccolato e caffè, confezionò una deliziosa "torta nera" che, in onore della sua terra, intitolò al grande architetto vignolese Jacopo Barozzi. Gli eredi di Gollini, tuttora pasticcieri a Vignola, lamentano con malcelato orgoglio numerosi tentativi d'imitazione, che testimoniano il successo di un dolce la cui ricetta veramente completa non è mai stata pubblicata. A me, Nino Gollini, facendo un serio strappo alla regola, ha rivelato l'elenco degli ingredienti (meno uno) e spiegato, seppure sommariamente, qual è il procedimento per preparare la Torta Barozzi.

Un tempo, il "castagnaccio" era venduto anche per le strade. I "bollentai", provenienti quasi tutti dalla Toscana o da Bologna (da dove era stata importata l'abitudine delle "mistocchine", focaccine di farina di castagne cotte al forno, un po' più delicate del "castagnaccio" modenese), erano personaggi caratteristici. Giravano per la città con una piccola attrezzatura ambulante che montavano dove occorreva, davanti alle scuole o tra le aiuole del parco, allo stadio o al mercato, riuscendo sempre ad arrivare puntuali con la fame dei ragazzi o di chi non aveva mezzo più economico per calmare i crampi allo stomaco.
Il croccante, tipico dolce delle tradizionali fiere di gennaio, è quasi sparito dalle tavole, ma un tempo era uno dei dessert più frequenti.

Ora è consumato quasi esclusivamente quando le bancarelle invadono la città per Sant'Antonio e San Geminiano, ma una volta era confezionato su ordinazione e assumeva, sulle mense dei più abbienti, forme particolari. Attualmente, questa tradizione è conservata ancora dalle Suore Cappuccine del convento di Fanano, che in occasione di qualche importante matrimonio sfornano ancora, ma solo su ordinazione, piccoli capolavori di artigianato pasticciere.

Un dolce la cui tradizione è sostanzialmente reggiana, ma è conosciuta anche a Modena per ragioni di "cuginanza" estense, è la spongata, uno dei più antichi fra quelli sopravvissuti nella pasticceria moderna. La specialità di Reggio Emilia, in particolare di Brescello (ancora oggi la spongata del paese di Peppone e don Camillo, dove è prodotta con sistema quasi artigianale, è la più nota e apprezzata), è citata addirittura in documenti d¹epoca medioevale. In quel periodo, il Pan di spezie, di sicura origine greca, era preparato dagli "speziali" ed era il dolce più diffuso, anche a livello popolare. A Modena era molto conosciuta già nel XVI secolo, quando la produzione era controllata da una "grida" estense. Nella Padania, oltre il Po, è chiamato "spongarda". Il nome sembra derivi da "sponga", spugna, sia a causa dell'aspetto sia per i numerosi sapori assorbiti dalla pasta di base. A Modena e in provincia è durata a lungo, almeno nel periodo delle feste di Natale, l'abitudine di preparare in casa la spongata. A Reggio Emilia si usa ricoprirla anche di cioccolata.

Un dolce che appartiene alla vastissima tradizione della Bassa modenese è quello che, dove la provincia confina col Ferrarese, chiamano "sguazaròt". A San Felice, si possono ancora gustare nel periodo delle feste di Natale. Si tratta di tortelli dal sapore dolce-brusco, il cui nome dialettale (letteralmente "rovescio di pioggia forte ma di breve durata") deriva dall'abitudine di farli guazzare nella "saba" prima di spolverizzarli con lo zucchero. Dall'altra parte della provincia, sull¹Appennino, insieme con quella della Colomba di Pavullo, esiste la tradizione degli zuccherini. " "Quand'è il giorno degli zuccherini?". Sulle nostre montagne è come chiedere: quando vi sposate? La tradizione di preparare i "zucarèin" per tutte le festività religiose, ma soprattutto in occasione dei matrimoni, è andata quasi del tutto persa. È viva soltanto in alcuni piccoli villaggi attorno a Zocca. Gli sposi distribuiscono questi soffici dolci nuziali agli amici, ai parenti e ai testimoni al posto dei confetti, di cui hanno lo stesso simbolico significato rituale. Un retaggio del periodo estense è il krapfen. Il dolce d'origine viennese fa parte ormai integrante della cucina modenese. Probabilmente, fu "importato" nell'800 da qualche pasticciere austriaco al seguito di un dignitario o di un militare in visita ai duchi Estensi. Nel dialetto modenese, col passare del tempo, il nome è divenuto più semplicemente "crafen". Anche la ricetta attuale, forse, ha subito qualche variante rispetto a quella originale. A Roma, frittelle simili si chiamano "bombe", in Romagna e a Firenze "bomboloni". Alfredo Panzini propose di battezzarli in italiano "sgonfiotti alla viennese", ma il suggerimento dello scrittore di Senigallia non ha trovato molti favori.

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