|
In ogni angolo di
Sicilia, sui banchi del pesce non mancò mai il
baccalà. Che si vendeva sempre “ammollato”.
Mostrava i suoi carnosi filetti come spudorate
intimità. Oggi si trova in ammollo in laide
bacinelle di polietilene coloratissimo; una
volta in graziose vaschette con lo zampillo. A
seconda delle stagioni, quel biancore era
interrotto da un grosso pomodoro maturo oppure
da un bel ravanello. Quel rosso violento serviva
ad attirare l’attenzione delle massaie: era quel
che oggi si dice un “window” in termini di
marketing pubblicitario.
Era stato
scoperto, nel 1431, da Piero Querini, un
mercante veneziano che aveva fatto naufragio
alle isole Lofoten, nel nord |
della Norvegia.
Quel pesce essiccato permise le prime,
lunghissime navigazioni atlantiche. Una scoperta
determinante per la cambusa dei bastimenti
d’epoca: un prodotto leggero, altamente proteico
e a lunga durata.
Forniva proteine in grado di equilibrare
un’alimentazione a base di gallette, pesce
salato in barile e frutta secca.
In Sicilia ci
arrivò a metà del XVIII secolo quando il pescato
cominciò a scarseggiare. E in mare c’era da fare
i conti pure con la pirateria che impediva ai
pescatori di allontanarsi dalla costa. Mentre
conventi, monasteri e devoti osservanti
riservavano ben 131 giorni all’anno al “mangiar
di magro”.
Già nei primi anni
di regno di Carlo III di Borbone si parlava di
consistente calo del pescato. Il settore
languiva e la colpa fu attribuita a delfini e
squali che infestavano le zone di pesca. Anche
se molti ne addebitarono le colpe all’abuso di
reti a maglie strettissime e il ricorso a
“ordegni di polvere pirica” e certi “funesti
veleni” usati da pescatori disonesti.
Si arrivò a
invocare dal Papa un “anatema solenne” contro
delfini e squali!
Più laicamente sia
Carlo III che suo figlio Ferdinando emanarono
leggi assai severe per evitare la distruzione di
flora e fauna dei fondali. E nel contempo si
autorizzò, già nel 1790, l’importazione di
“aringhe e merluzzi essiccati, affumicati e
salati” dal Nord Europa. E pure dalla
lontanissima America.
Baccalà viene dal
basso tedesco-scandinavo “bakkel-jau”, bastone
pesce; stoccafisso sta per “stock-fish” che è
pur sempre un bastone pesce. Ma in inglese.
In Sicilia
diventarono “piscistoccu” e “baccalàru”. Quest’ultimo,
precisa il dizionario siciliano, “in senso
osceno sta per sesso femminile”.
Se i messinesi
impazzirono per lo stoccafisso, i palermitani,
giusto per fare il contrario, si scoprirono una
vera passione per il baccalà. Fra nobili e
plebei fu lotta all’ultima ricetta.
Fu così che quel pesce nordico venne a
concludere la sua terrena esistenza in un
mediorientale tripudio gastronomico di zafferano
e “passuli di zibibbu”.
Tratto
dalla Rubrica a cura di Luigi Farina A
tavola con l'esperto:
Gaetano Basile e la
cultura gastronomica siciliana.
dal
sito di
Gaetano Basile by
www.spaghettitaliani.com |