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Dalla seconda metà
dell’Ottocento ai primi del Novecento la cucina
siciliana risentì della presenza dei Florio,
grazie a una ventata di ricchezza, e pure dei
rapporti culturali e di lavoro con l’Europa
intera. Erano calabresi i Florio che a Palermo
fecero fortuna con il mercato delle droghe e
spezie. Appena si trasferirono dalla modesta
abitazione di via Materassai 47, sentirono il
bisogno del bien vivre degli
aristocratici e assunsero pure loro un Monsù.
Monsù o Monzù?
Dipende. Noi siciliani usammo sempre la esse,
mentre i napoletani optarono per la zeta.
In ogni caso un appellativo che spettò soltanto
agli artisti dei fornelli. |
Il palermitano
Francesco Paolo Cascino fu Monsù in casa Florio
dopo aver servito in casa Valdina e poi dai
Deliella. Confidò ad Alberto Denti di Piraino
che “..il titolo di Monsù si dava ai cuochi
di casata, cioè a quanti avevano il privilegio
di servire in case patrizie. Gli altri, al
lavoro magari presso gente ricchissima, ma non
titolata, erano cuochi di paglietta e noi li
consideravamo gente da non frequentare.”
Indimenticabili
figure di Monsù emergono dalle pagine della
letteratura siciliana. Ne “I Vicerè” di Federico
De Roberto spicca la figura di Monsù Martino,
assunto dagli Uzeda qualche anno prima del
fatidico 1860. Ne “Il Gattopardo” di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa c’è lo splendido “pran
pron” di Monsù Gaston con cui annunzia
l’arrivo in tavola del celebre timballo di
maccheroni in crosta servito a Donnafugata.
Al Monsù ci si
rivolgeva dandogli del voi e non dimentichiamo
che in tutti i Palazzi della nobiltà palermitana
c’era sempre il “quarto del Monsù”: un
appartamento tutto per lui, un alloggio privato,
come si rileva dai documenti notarili.
La cosa più
curiosa è che in Francia ai grandi cuochi, agli
artisti della casseruola, si diede sempre del
Maître!
Agli antichi Monsù,
a quei lontani artisti della cucina, dobbiamo i
nostri solenni ragoûts, i pâtés, i soufflés, le
sontuose glasses e quei maccheroni en croûte
profumati di burro e di carissimo parmigiano. Ma
non solo quelle delizie.
Non ci facciamo
più caso giacché oggi le “creperie”, al pari dei
funghi dopo la pioggia, sorgono dappertutto: in
città e paesi. C’è da gridare allo scandalo? Sì,
ma solo perché le malcapitate crepes di tanti
menu siciliani hanno perduto l’accento
circonflesso sulla prima, oppure vengono esibite
con incerta, talvolta disinibita ortografia.
Anche se furono introdotte dai tanti Monsù in
esercizio nei piani alti dei Palazzi, tanto
straniere non sono.
Infatti, quando arrivarono i Romani dalle nostre
parti e ci gratificarono di tanti S.P.Q. ci
insegnarono a fare una economica frittatina,
leggerissima e quasi trasparente. Quel
modestissimo uovo, sbattuto su una lastra o
padella arroventata, appena a contatto si
aggrinzava increspandosi. Ecco dunque quel “crispus”,
cioè crespo, increspato. In Francia come
crespelle ci finirono, attorno all’anno 495,
grazie a Papa Gelasio I che non era neppure
francese, ma africano. Fu lui ad ordinare che si
distribuissero quelle economiche frittatine ad
una massa di pellegrini francesi giunti a San
Pietro stanchi e sopratutto affamati. E fu il
successo: in Francia vennero divulgate
traducendo quelle crespelle in “crêpes”. Poi
arrivò la crêpe Suzette.
Ma chi era Suzette?
Per chi non lo sapesse è il nome di una celebre
crêpe aromatizzata al mandarino e introdotta a
Palermo proprio negli ultimi anni
dell’Ottocento, quando la città visse la sua
splendida belle époque dei Florio.
La regina di
Palermo, come venne definita, si chiamava donna
Franca Jacona di San Giuliano, moglie di Ignazio
Florio. Un buon partito – dissero le malelingue
– per indorare il blasone dei San Giuliano...
Nella capitale
abitavano ricchi proprietari terrieri,
professionisti e uomini politici legati, in
qualche modo ancora al mondo dell’antica
aristocrazia, assieme a una massa di affamati
abitanti di catoi. Accanto a loro una nuova
classe sociale emergente. L’amalgama non fu
facile e neppure veloce giacché i giovanotti
della nascente borghesia dovettero apprendere le
norme sociali, compreso lo stare a tavola.
Insomma, quelle regole non scritte, a cui non
erano educati.
Si esibì una nuova
ricchezza espressa sinteticamente nel brillante
di parecchi carati, contro i raffinati monili di
famiglia di modesto peso in oro e pietre che non
andavano oltre il rubino. Spetezzanti vetture
automobili presero il posto di legni
eleganti tirati da stupendi cavalli carrozzieri.
C’erano i Monsù e
pure la prima mafia cittadina. Che si scriveva
ancora maffia, con due effe, nei
rapporti di polizia. A Fondo Laganà, fra l’Acqauasanta
e l’Arenella, era stata scoperta nel 1897 una
camera della morte a servizio della cosca di
quella zona.
Proprio da quelle
parti, dove c’erano eleganti stabilimenti
balneari, sorse la Villa Igiea dei Florio che
vide la luce ufficialmente il 10 dicembre del
1900. Con un gala memorabile ed una “minuta” di
cui si parlò per parecchio tempo.
Si vuole che la
crêpe Suzette sia stata inventata da Henri
Charpentier, apprezzatissimo chef dei
Rockefeller. Stando a una sua dichiarazione,
l’avrebbe creata a Montecarlo, precisamente
nell’anno 1896, per il principe di Galles,
figlio della regina Vittoria d’Inghilterra.
Suzette era il nome di una charmante
brunetta, con il nasino all’insù, che ebbe con
il principe una storia di letto. Non c’erano
ancora Novella 2000 e il gossip in tivvù: ne
avremmo saputo sicuramente molto di più....
Quel principe,
amante di crêpes e allegre donnine, salito al
trono d’Inghilterra con il nome di Edoardo VII,
concluderà con l’amata Francia la famosa
“Entente cordiale”.
C’è da chiedersi:
c’entrarono le grazie di Suzette e magari quelle
crêpes?
Sarebbe bello
crederci.
Personalmente
ritengo che sia stato soltanto un atto di
presunzione la dichiarazione di Monsieur
Charpentier. Facendo un po' di conti, all’epoca,
avrebbe avuto sedici anni....
Tratto
dalla Rubrica a cura di Luigi Farina A
tavola con l'esperto:
Gaetano Basile e la
cultura gastronomica siciliana.
dal
sito di
Gaetano Basile by
www.spaghettitaliani.com |