foto di Luigi Farina ©2006 |
Cominciamo dalla
salsa agrodolce che nacque da un concetto
filosofico religioso. Infatti, nei testi
persiani del periodo Sasanide sopratutto, si
parla del principio della contrapposizione delle
forze del bene e del male e dei canoni
dell’armonia applicati ai cibi della cucina
d’alta corte. Secondo la dottrina di Zaratustra,
fu il dio Ahura Mazdah a creare il mondo. La
dinamicità che la materia trasse dal nulla destò
una forza opposta da cui nacque lo spirito del
male: si trattava di ristabilire l’equilibrio
perduto bilanciando “il sole e la luna, il
bianco e il nero, il dolce e l’aspro”. Ecco
dunque quella salsa dall’equilibrio perfetto fra
il dolce del miele e l’aspro dell’aceto. Poi,
con la conquista musulmana della Persia, quella
salsa arrivò in Sicilia e in Spagna. |
Da noi finì come
popolare, gustosa salsa per insalate, buona per
condire tutto ciò che di insipido e male
assortito si riusciva a mettere insieme. Pare
che i primi a servirsene, in modo continuativo,
siano stati i marinai. Alle ciurme siciliane
solitamente si servivano zuppe di ceci, tonno
salato, carne secca e la galletta,
spiritosamente ribattezzata “cappone di galera”.
Fu quella salsetta acquistata nelle taverne del
porto (cauponae, in latino) a rendere
morbidamente commestibile quel cappone di
galera: da cappone, cauponae a caponata il passo
fu breve.
Quel biscotto duro
e insipido s’arricchì di pesce, verdura e quanto
ancora si riusciva a trovare a buon mercato e
che la salsetta agrodolce condiva come una
normale salsa da insalata. E come tale,
tecnicamente, ancora oggi viene considerata.
Alcuni studiosi
sostengono che il nome caponata possa venire
dalla cucina baronale: quella salsa, infatti, fu
usata per una conservazione a breve di fagiani,
lepri e capponi principalmente. Da qui capponata
con due pi, ridotta poi a una sola dai poveracci
che ci misero quello che trovavano. Ma ancora
senza melanzana.
Sui libri compare
per la prima volta in “Ethymologicum Siculum”
stampato a Messina nel 1759: alla voce caponata
si legge “piatto fatto di cose varie”!
Nel 1868, Vincenzo
Mortillaro, marchese di Villarena e studioso di
cose siciliane, scrisse nel suo Dizionario
“capunata – sorta di manicaretto ov’entra del
pesce, petronciane o carciofi, ed altri
condimenti, e si mangia per lo più freddo, o tra
un piatto e l’altro per tornagusto, o dopo i
piatti caldi.” E’ chiaro che petronciana è la
melanzana: finalmente!
Dai Monsù quella
salsa fu stimata ottima anche per “appareiller”,
in francese mettere assieme cose diverse, e così
finì per diventare “apparecchio”, cioè una salsa
per condire a freddo. Trance di cernia
apparecchiata o più economici carciofi
apparecchiati, rallegrano oggi le nostre tavole.
Disse un bello spirito siciliano che le nostre
nonne inventarono l’apparecchio prima dei
fratelli Wright...
Nella seconda metà
dell’Ottocento la petronciana finì per farla da
padrona nella antichissima caponata. La sua è
una storia curiosa: ce la portarono i saraceni
con il nome di “badingian”, ma non ebbe successo
perché amarissima e ritenuta pure velenosa.
Quella “mela” che ne precede il nome italiano è
dovuta probabilmente alla Melongèna arabum con
cui venne indicata dagli antichi botanici. Più
tardi, portata in Sicilia dalla Palestina dai
Padri Carmelitani nel Trecento, ebbe successo
popolare “a canazzo”, affettata e fritta con le
fette disposte a scaletta in una teglia
rettangolare in modo da assomigliare a una
parmiciana che in dialetto è la persiana.
Qualcuno la tradusse (ignorando...) in
parmigiana come se avesse a che vedere con Parma
o con il suo cacio: si usò sempre il
caciocavallo fresco!
E’ bello sapere
che quella umile melanzana, proprio nella felice
età dei Florio, ebbe il suo momento di gloria
entrando felicemente nella caponata.
La impiegarono
sopratutto i Monsù che, però, per non far
dimenticare le ricette più antiche con il pesce,
ci aggiunsero aragosta, gamberi, tentacoli di
polpo o addirittura tocchetti di cernia e
dentice!
Per presentarla in
bella vista si usarono dei “vassoietti di pasta
di pane insipido” che ricordavano l’antica,
insipida galletta di bordo.
Sono trentasei le
ricette “codificate” di caponata. Almeno quelle
rigorosamente documentate. La più antica
prevede: gallette da marinaio, capperi salati,
olive verdi, acciughe salate, filetti di tonno
salato, olio d’oliva, aceto, miele e sale.
Oggi la caponata è
in pericolo e nessuno pensa a lanciare un grido
d’allarme. Per fare una buona caponata ci vuole
un tipo di melanzana che sembra in via
d’estinzione: è quella di media dimensione, con
la pelle ben nera, lucida, amarissima (l’amaro è
determinante per combinarsi con l’agrodolce) e
con la parte inferiore perfettamente tonda. “A
culu tunnu” dicono gli ortolani con poco
rispetto per le buone maniere, ma rendendo
perfettamente il concetto. Pure l’insospettabile
Don Milani, prete coraggioso e rivoluzionario,
sosteneva che non c’è nulla di male a nominarlo
quando è necessario.
La polpa di quella
specie è resistente, resta tosta, compatta, e
non assorbe l’olio di frittura mantenendo il
tocchetto pronto a essere raccolto dai rebbi
della forchetta. Oggi, con altre varietà, si
ottengono marmellate di caponata. E non sono la
stessa cosa.
Sicuro che siano
trentasei i modi d’intendere la caponata? In
realtà saranno migliaia le ricette approdate al
terzo millennio. Infatti l’interpretazione è
ancora affidata, come un tempo, alla fantasia e
alla creatività di chiunque, conseguenza dello
spiccato individualismo isolano.
Alla caponata di
mia nonna e di mia madre – due scuole di
pensiero – si è aggiunta quella di mia moglie e
quella di mia figlia che, a modo loro, hanno
rivisitato, ancora una volta quell’antichissima
delizia nata in una lontana corte persiana.
A proposito:
caponata o caponatina? Dipenda dalla quantità di
amore che le portate. Io opto sempre per
caponatina che è vezzeggiativo da innamorati.
Tratto
dalla Rubrica a cura di Luigi Farina A
tavola con l'esperto:
Gaetano Basile e la
cultura gastronomica siciliana.
dal
sito di
Gaetano Basile by
www.spaghettitaliani.com |