foto di Luigi Farina ©2006 |
La storiella del pasticciere saraceno
che stava mescolando la ricotta di pecora con lo zucchero di canna
in un recipiente semisferico di rame detto “qasât”, la racconto a
tutti perché ha un suo fascino. Indiscutibile. E da lì, concludo
sempre, nacque la cassata.
Una sinfonia di sapori, un’opera d’arte
effimera creata per nutrire il corpo, ma anche lo spirito. Un pezzo
di Sicilia offerto agli occhi e all’anima, come immagine di voluttà.
Una perenne metafora della carnalità e del godimento, un’estasi
estraniata da un paradiso terrestre incerto tra l’Olimpo e il
Genoardo, l’Empireo e il Teatro del mondo. E tutti pensano che sia
vero. |
Cos’è, dunque,
questa famosa cassata? Nella Grecia antica e
nella Magna Grecia si faceva già un dolce di
cacio, sicuramente di ricotta, addolcito con il
miele. Nel tardo latino prese il nome di
caseatus: quel dolce impasto veniva
rinchiuso in una sfoglia di pasta e infornato.
Ci racconta Petronio che fu dolce confezionato
con la pasta del pane, ricotta e miele. Lo
troviamo riprodotto in un affresco della famosa
villa di Oplontis. Più tardi, quando arrivò lo
zucchero di canna, si ricopriva con quello e la
vaniglia ridotti in polvere al mortaio.
Finì come dolce
monacale da servirsi soltanto a Pasqua giacché
quel dolce, rotondo come il sole, ricordava il
suo tramonto e risorgere, così come ogni anno si
ricorda la passione, morte e resurrezione del
Cristo. Di antica tradizione, dunque, la cassata
di Pasqua che troviamo citata in un documento
del sinodo tenutosi a Mazzara (all’epoca con due
zeta...) nell’anno 1575, in cui si legge che
l’affannoso lavoro delle monache in cucina le
distraeva dalla preghiera.
Il testo in cui
compare per la prima volta la “cassata” è il
Declarus di Angelo Sinesio (1305-1386). Fu
lui, primo abate dell’abbazia di San Martino
delle Scale, l’autore di quel primo vocabolario
siciliano-latino il cui manoscritto è stato
pubblicato nel 1955 dal benemerito “Centro Studi
Filologici e Linguistici Siciliani”. Ebbene,
alla voce cassata si legge: “cibus ex pasta
panis et caseus compositus”. Insomma, piatto
composto da pasta di pane e formaggio.
Probabilmente un cacio insipido come la ricotta,
dolcificato con il miele e racchiuso in un
involucro di pasta di pane prima di essere
infornato.
E così va a farsi
benedire l’invenzione saracena del nostro dolce.
E il lato barocco
dell’addobbo? Nel “Vocabolario siciliano
etimologico” di Michele Pasqualino, edito nel
1785, la nostra cassata viene definita “specie
di torta fatta di ricotta raddolcita di zucchero
con rinvolto di pasta anch’essa raddolcita e
fatta in forma rotonda.” La stessa cosa
all’incirca scrisse Vincenzo Mortillaro nel suo
dizionario del 1870. Come avrete intuito, si
indica chiaramente quella che oggi chiamiamo
cassata al forno. Fu l’unica cassata conosciuta
dai nostri nonni!
Quel trionfo di
pan di Spagna, crema di ricotta, vaniglia e
pasta reale, glassa di zucchero, cedro e
cannella, frutta candita, zuccata e capello
d’angelo, marmo mischio di tarsie geometriche,
arabeschi floreali, trionfale visione del mondo,
ha una data di nascita collocabile attorno al
1878. L’epoca d’oro dei Florio.
In quell’anno il
celebre pasticciere palermitano cavaliere
Salvatore Gulì, che si fregiava del titolo di
“Confetturiere di Casa Reale” affiancando nel
suo logo, per una sorta di par condicio
politica, re Ferdinando di Borbone e re Vittorio
Emanuele II, immaginò di utilizzare la sua
prestigiosa produzione di frutti canditi per
decorare il dolce di Pasqua. Ne stravolse,
naturalmente, la preparazione, sostituendo la
pasta frolla che avrebbe comportato una cottura
al forno, con quella che fu pure una sua
invenzione: la copertura di glassa di chiara
d’uovo e zucchero. Essendoci già una cassata
pensò bene di chiamarla “cassata alla
siciliana”. Anche se i palermitani si ostinarono
a chiamarla “la cassata di Gulì”!
Il successo fu
immediato perché quel trionfo falsamente barocco
meglio ubbidiva alla gran voglia di esprimere
una siciliana esuberante sensualità. E pure,
finalmente, quella nostra sicula incertezza fra
Bibbia e Corano.
I Florio la
regalarono alle teste coronate di tutta Europa,
a magnati e giornalisti del Nuovo Mondo, ben
imballata in scatole di latta decorate, oggetto
di collezionismo. Portò lontano il profumo della
nostra isola. Quel dolce pasquale, grazie a
loro, divenne il must della pasticceria
palermitana.
Da allora, ogni
sia pur piccola pasticceria di ogni minuscolo
paese di Sicilia, quando arriva la Pasqua
prepara con le sue varianti personali la
cassata. Ricoperta di glassa bianca viene
rallegrata dai colori vivacissimi di pere,
mandarini, fichi, ciliegie, strisce di zucca e
quanto ancora si può candire.
Quante sorte di
cassate siciliane esistono ai giorni nostri?
Tante quanti sono i pasticcieri che lavorano
nell’Isola. Ancora ai nostri giorni, per
fortuna, quando s’avvicina la Pasqua ci si
affanna nei laboratori per prepararla per tempo
giacché la nostra cassata ha bisogno di riposo
per essere buona.
Nella fatidiche
quarantotto ore si amalgama, acquista
consistenza, si scambiano i profumi, si rassoda
il cerchio di pasta di mandorla che la trattiene
come le doghe di una botte. Poi, riccamente
abbellita con i canditi, si imballa in scatole
di polistirolo per trasportarla su velocissimi
jet in giro per il mondo.
La nostra cassata
porterà ancora una volta, ai nipoti e pronipoti
dei suoi figli, oggi personaggi di rilievo nel
mondo dell’economia o della politica, il profumo
inconfondibile della nostra terra. Per la gioia
dei turisti la cassata si fa in tutti i mesi
dell’anno.
Che poi qualcuno
continui a raccontare la storiella del saraceno
che stava impastando la ricotta di pecora con lo
zucchero di canna in quella famosa scodella, ci
sta bene lo stesso.
Servirà, se fosse ancora il caso, a sedurre, a
far sognare ad occhi aperti. Come il fantasioso,
meraviglioso racconto del cuntastorie.
Tratto
dalla Rubrica a cura di Luigi Farina A
tavola con l'esperto:
Gaetano Basile e la
cultura gastronomica siciliana.
dal
sito di
Gaetano Basile by
www.spaghettitaliani.com |